Se a Leo Longanesi avessero proposto di parlare della volatilità delle borse, fenomeno non quotidiano alla sua epoca, avrebbe probabilmente risposto con il titolo di un suo famoso libro: “Parliamo dell’elefante”, la sola bestia di una certa importanza, di cui si possa parlare senza pericolo, così deviando il discorso su temi più seri. Ma, insistendo, avrebbe citato il suo famoso aforisma su Napoli: “città plebea, che si regge sul suo continuo moto. Se Napoli s’arresta, muore”. Se la volatilità s’arresta, la borsa muore e qui sta tutta la miseria di una commedia, in cui attori plebei sono gli unici a costruirci la loro ricchezza con pretesa di nobiltà. La volatilità è l’argomento degli operatori per giustificare le perdite inflitte. Però loro ci guadagnano o ci perdono assai meno. Perché? Se speculano per conto altrui, guadagnano comunque e sempre laute commissioni. Se operano in proprio, rischiano solo il differenziale, potendo operare “allo scoperto”, ma anche quando debbono finanziarsi lo fanno pagando tassi di interesse inferiori al risultato probabile del singolo atto speculativo, ma, soprattutto, potendo operare in continuità con continue coperture e contro coperture e questo è il “moto continuo”.