La Chiesa dei Frati minori, come molti templi cattolici di antica costruzione, è orientata verso Gerusalemme. Dalla vetrata dell’abside un raggio di sole penetrava le figure istoriate e attraverso il rosso della veste del Cristo nel Pretorio, si posava stanco sul volto emaciato di una donna seduta in un banco, rendendolo più vivo. Non erano in corso funzioni religiose e la donna era l’unica presenza nel tempio nel pomeriggio di un luglio caldo e afoso. Non sembrava pregasse. Un uomo si avvicinò al banco.

«Scusi, lei sa l’ora della Messa serale?».

«Non so, ma mi sembra di aver notato un orario nella bacheca dell’ingresso principale».

«Già, ma io sono entrato da una porta laterale. Mi scusi se l’ho distratta dalle sue preghiere».

«Nessuna scusa, io non sto pregando. Non sono credente».

«Strano che un non credente entri in una Chiesa. Cerca forse una conversione?».

«Per nulla! Non ne sento il bisogno. Ma entro spesso in questa Chiesa. Vede, le chiese sono il luogo ideale per la meditazione di chiunque, agevolata anche dalla temperatura fresca. Talvolta mi viene il dubbio che gli uomini costruiscano chiese non solo per un omaggio a Dio, ma anche per se stessi, per soddisfare il proprio gusto estetico, per temperare le proprie sensazioni di colpa. Dio non ha bisogno delle vetrate, dei barocchismi, delle colonne imponenti. Ma lei perché è entrato? Se le interessa l’ora di una funzione, allora lei è un cattolico credente».

«Sui generis, sì. Ma oggi è un giorno tribolato e vorrei rivolgere a Dio una preghiera del tipo “Dio me la mandi buona”».

«Ma lei crede che Dio si preoccupi delle quisquilie umane? Non si sente in contraddizione? Se è credente, non può pensare a un Dio banalizzato, trattandolo come un ente di beneficenza».

«Ha ragione, ma sa, in certe circostanze una preghiera, anche se erratica, non guasta mai e inoltre è un bisogno istintivo pregare in momenti di difficoltà».

Parlavano a bassa voce, anche se non c’era nessuno da disturbare. Il luogo, si sa, invita al rispetto chiunque, a meno di essere barbari, come i Lanzi a Roma, che ridussero le chiese a stalle per i loro cavalli.

«Scusi ancora, ma la mia curiosità aumenta. Se lei viene in Chiesa solo per meditare, non credo sia per pensare concetti scientifici. La chiesa dello scienziato non va oltre il suo laboratorio. Solo un filosofo, anzi un metafisico, può entrare in una chiesa per meditare».

«Infatti, in questi giorni sto meditando sul problema della giustizia. E lei?».

«Io sono reduce dall’udienza conclusiva di un processo penale per reato d’opinioni a mezzo stampa. Sono un giornalista e ho ritenuto di concedermi la libertà di attaccare, ma con indizi precisi, un politico che è nelle grazie dei giudici. Chissà come sarà la sentenza, prevista per domattina! Non ho certo grandi speranze, per questo ho bisogno di un intervento del Padreterno, anche se sono il primo a pensare che il Deus ex machina esiste solo nel teatro tragico greco».

«Ma, allora, abbiamo un pensiero in comune: la giustizia. Senta, da quella porta laterale, vicina all’abside, si entra nel chiostro dei Frati, un luogo adatto alle riflessioni non meno della Chiesa. Perché non ci andiamo a conversare? È quasi sempre deserto, perché di frati ne sono rimasti pochi. È vero che non sono credente, ma mi spiace discutere certi temi in un tempio. I non credenti non escludono Dio e temono di recare offesa a un luogo, che altri ritiene sacro, con argomentazioni molto personali. E poi…le chiese sono fatte per pregare, ma in silenzio. Solo quando la preghiera è collettiva è espressa ad alta voce».

«Volentieri. Mi conforterebbe uscire dal silenzio interiore. Quando un pericolo è immanente, fa bene la presenza di una voce umana».

La donna si alzò nel banco. Il suo volto sfuggì al raggio di sole e apparve in tutto il suo pallore. L’uomo notò la figura asciutta e il volto maturo di un’età pressappoco pari alla sua: una quarantina d’anni o poco meno, mentre si dirigeva verso il chiostro. «Però – pensò – per essere una non credente, conosce bene il luogo!» E la seguì.

Il chiostro è un quadrilatero con una porticato continuo, colonne in pietra e un muretto, che può anche fungere da sedile e in mezzo, a cielo aperto, un prato verde smeraldo, tipico dell’erba che non subisce l’insulto del sole cocente. Un luogo ideale per riflettere e porsi fuori dal tempo.

Si sedettero sul muretto.

«Sicché, lei si interessa di giustizia».

«Già. Pratico professionalmente la filosofia del diritto e la giustizia è il cardine di questa disciplina. E lei?».

«Sono un giornalista non a libro paga, un free lance, come dicono gli anglosassoni. Ho scritto di un politico molto influente, intingendo la penna nell’acido prussico. Tutto vero quel che ho scritto. Ma si sa, che la scritta  sul muro di una corte di giustizia “La legge è uguale per tutti” è una asserzione vuota e autoreferente. Infatti, non c’è quella che mi piacerebbe leggere “La giustizia è uguale per tutti”. Così stamattina, all’udienza conclusiva, il Pubblico Ministero ha chiesto contro di me e il direttore del mio giornale condanne pesanti. Ho sempre ritenuto e scritto che la giustizia dovrebbe seguire, come un riconoscimento, la verità. Ma a chi importa più la verità? Sicché la giustizia diventa fine a se stessa e si costruisce la verità che più fa comodo. Lei che ne pensa?».

«Penso che vi siano tante definizioni di giustizia quante se ne vuole, ma per sintesi ritengo ve ne siano tre fondamentali: la giustizia di un ente superiore, la giustizia dei teorici e la giustizia degli operatori, giudici, avvocati e imputati».

«Condivido, ma le prime due sono esercitazioni di teologi e metafisici. È la terza l’unica vera, che può lasciare il segno negli individui. Dico questo perché mi tocca da vicino ed è attuale, gravida di conseguenze. Se sarò assolto, ma non ho speranze, sarà stata un’esperienza psicologicamente incidente, se sarò condannato – ed è quel che temo – potrei trovarmi in gravi difficoltà per la mia professione. Dipenderà dalla pena e dalla motivazione della sentenza. I difensori dell’influente uomo politico, che ho accusato nel mio articolo, hanno chiesto un pesante risarcimento dei danni morali. Io, a conferma del mio articolo, ho portato fior di argomentazioni, ma, seguendo le tesi degli avvocati del parlamentare, il Pubblico Ministero, che avrebbe dovuto svolgere indagini in una certa ben chiara direzione, ha seguito un’altra pista e non è approdato a nulla, com’era da prevedere, anzi la mia denuncia si è risolta in boomerang e si è ritorta su di me e sul direttore del giornale in un’accusa di diffamazione. Si tratta di un caso di corruzione ben preciso e politicamente rilevante: il politico ha incassato rilevanti tangenti per far assegnare l’esecuzione di un opera pubblica a una imprenditore amico, pagata con maggiorazione del prezzo a danno della collettività. Approntato l’articolo ne avevo discusso a lungo con il direttore del giornale. Poteva essere uno scoop, perché la corruzione del politico era evidente e forse addirittura era un caso di concussione con effetti di danno dello stato. Sa cosa mi ha detto più volte il mio avvocato? Che ho sbagliato il colore politico della persona che ho accusato, che è dello stesso colore politico non tanto del Pubblico Ministero quanto dei giudici che formano la terna giudicante. Così, mi dica lei, in che posso sperare. Perché alla motivazione e alla sentenza seguirà un altro processo: quello dell’ordine professionale dei giornalisti. Potrebbero persino inibirmi la professione per un lungo periodo».

«La capisco – soggiunse la filosofa – è il problema che angustia l’umanità da sempre. È lo stacco incolmabile tra la giustizia teorica e quella pratica, che non sempre coincidono. Se poi ci si mette di mezzo la politica! Comprendo la sua preoccupazione nell’attesa. Io non sono giurista e mi occupo solo di ciò che sta a monte, però, nel caso di sentenza ingiusta, ci sono pur sempre gradi di appello e la speranza di eventuali correzioni».

«È vero! Ma, veda. Anche ammesso che il mio avvocato si accontenti di un compenso simbolico in nome di una lunga amicizia, c’è sempre il rischio di dover pagare le spese di controparte in caso di soccombenza, che si aggiungono alla condanna al risarcimento. No! Se verrò condannato non ricorrerò in appello, per non subire il rischio di beffe reiterate, a meno che il mio direttore non decida per un appello. Sarei costretto a seguirlo. Comunque, mi ha garantito, che in caso di sconfitta tornerò alla critica cinematografica. C’è minor rischio, anche perché, con il livello dei film di oggi, criticarli è un dovere morale e, inoltre, non interessa ai giudici. Eppure i fatti che ho descritto fino a portarmi in tribunale, sono ben peggiori di un cattivo film. E poi si legge che il sociologo David Riesman, in un momento di evidente ottimismo, definì la stampa: “la polvere da sparo della mente”. Povero illuso! Non aveva considerato che a bagnare le polveri ci pensano i giudici. Ma lei mi spieghi perché a carriera matura si sta ponendo problemi di giustizia, quando dovrebbe essere tema ormai macinato da un filosofo del diritto fino a diventare scontato e non più degno di ulteriori riflessioni?».

«È qui che lei sbaglia. Il problema giustizia è inesauribile, se non altro perché non si riesce a spiegare il divario tra la giustizia pratica e quella teorica, che la storia degli istituti pone come premessa del funzionamento della giustizia oggi. Parlare di giustizia ai tempi dei greci, dei romani e dei barbari è un parlare di ingiustizia, ma dagli illuministi e da Cesare Beccaria il progresso negli istituti è stato continuo; però, ciò che è incredibile è proprio lo stacco tra l’amministrazione quotidiana e i canoni teorici fondamentali».

«È vero e vedo che lei in un certo senso prova disagio a constatare lo stato attuale delle cose. Perché non me ne parla più diffusamente? Può darsi che non attenui la mia pena, ma decongestioni la delusione delle sue conclusioni».

«La ringrazio della sua sensibilità. Se proprio insiste, le dirò in breve che mi sto occupando proprio del rapporto tra verità e giustizia, come lei ha ben detto, e in breve le dirò che “verità”, se si prescinde da quella rivelata e dogmatica della sfera religiosa, è termine che ammette più definizioni sia per i filosofi sia per gli scienziati sia per gli uomini che svolgono attività pratiche. Però un denominatore comune esiste e può essere riassunto nella corrispondenza del fatto che appare alla sua origine o causa. Ma “quando” incomincia a esistere questa corrispondenza? Vi sono manifestazioni della verità che sono acquisite o acquisibili senza problemi e riconducono alla loro evidenza: per esempio, è vero per consolidata esperienza, senza bisogno di indagini da ripetere ogni volta, che se piove e non hai l’ombrello ti bagni, come è vero che se Tizio è colto in flagrante delitto, ne è l’autore e la verità è evidente senza bisogno di indagini. Ma in genere la verità non si manifesta con tanta evidenza e per essere svelata c’è bisogno di una ricerca. Questo vale soprattutto nel campo del processo, in cui la ricerca della verità è premessa indispensabile per arrivare alla sentenza. Il fenomeno riveste un’importanza così fondamentale da esigere una serie di analisi di prove e controprove affidate a più soggetti: accusatori, difensori, periti, testimoni, giudici, che alimentano quello spettacolo, sempre penoso, talvolta grottesco e tragico, che è la commedia umana recitata seconda consolidata liturgia sulla scena di un’aula giudiziaria. E che cos’è questa recita se non una ricerca, vera, sofferta o solo presunta, della verità? Il legame tra verità e giustizia è, quindi, di natura consequenziale: non si fa giustizia, se non si cerca la verità. La giustizia non è solo un’opera di omologazione della sentenza alla norma di legge, ma, prima ancora, la conclusione di un percorso di ricerca della verità nell’ambito delle regole procedurali imposte dalla liturgia processuale. Ma, qui si insinua un rischio tra i più pericolosi: il preconcetto. Il giudice è un uomo, non è un “fuori dal mondo”, che è ipotesi improponibile e nemmeno auspicabile, ma un “uomo di mondo” con le sue debolezze e le sue inclinazioni, le sue antipatie e simpatie umane; ciononostante, se vuol fare opera di giustizia, deve svestirsi del suo “io”, se non vuol inquinare la giustizia con le sue scelte politiche e partitiche. Il giudice ha questo obbligo, che genera rinunzie, un mettere tra parentesi se stessi, un accantonamento di ogni soggettività. Questo “mettersi tra parentesi” richiama il significato fondamentale della fenomenologia di Husserl ed è il prezzo da pagare per il cammino verso la verità. Questa voluta e necessaria dimenticanza di sé è la causa della solitudine del giudice, che, pur essendo “uomo di mondo”, nel senso che conosce il mondo, lo costringe a vivere fuori dal mondo. Queste considerazioni sono necessarie premesse per l’amministrazione di una giustizia, che seppur sempre umana, è un avvicinamento, una scoperta della verità. Una giustizia semplice, senza maiuscole, non ipostatizzata, ma solo amministrata, nel pieno significato del termine “amministrazione”, da non confondere con la “misericordia”, che, semmai, viene dopo e comunque non tanto dall’uomo quanto da un dio. Se la giustizia è “giusta” non ha nemmeno bisogno di misericordia».

«Grazie, vedo che abbiamo idee in comune».

Da una porta dell’altro lato del chiostro usci un frate di mezza età. Camminava lentamente, come non avesse alcuna fretta. Quando passò davanti ai due li osservò e pronunciò l’auspicio di rito Dominus vobiscum, «si parla amabilmente in un chiostro, lontani dai rumori» – aggiunse.

«Vero – disse la filosofa, che prese quell’amabilmente come un auspicio -. Ma secondo lei, per stare al tema della nostra conversazione, che cos’è la giustizia?».

«Quella degli uomini o quella di Dio? Perché vedete, quella degli uomini non è giustizia e a un povero frate interessa poco o niente. Quella di Dio è imperscrutabile e si mescola con la misericordia, che sfugge ai giuristi. Personalmente mi arrendo davanti a un tema così complesso. Mi dispiace di non poter contribuire alla vostra discussione, ma ora devo andare nella cella campanaria per avvisare i fedeli, purtroppo pochi ma attenti, che tra un quarto ci sarà la messa». E passò oltre.

I due uscirono dal chiostro e si fermarono sul sagrato della chiesa.

«Mi faccia sapere come si è conclusa la sua vicenda», disse la filosofa.

«Forse la leggerà sulla stampa», soggiunse il giornalista.

«Ma io non leggo i giornali e lei mi scuserà se può sembrarle un insulto alla sua professione, ma non ne ho né tempo né voglia».

«Noi però non ci siamo nemmeno presentati e non ci siamo scambiati indirizzi.

«Non è importante» disse la filosofa «supponiamo di conoscerci da tanto tempo e di non aver bisogno di simili formalità».

«D’accordo, però come facciamo?».

«Ci troviamo in questo stesso posto domani alle cinque del pomeriggio. Lei avrà già avuto le sue risposte. Le mie non le troverò mai, ammesso che non abbia ragione il frate. Talvolta la rinuncia è una virtù».

«Speriamo in bene» disse il giornalista.

La donna si allontanò. Alla luce del sole del tardo meriggio pareva una bella donna, alta e slanciata, con un suo fascino particolare e uno sguardo intelligente.

Il giornalista rimase sul sagrato a riflettere. «Non ha avuto espressioni di solidarietà, ma rientra nella logica del filosofo, che prende atto e basta, evitando la commiserazione. Che Dio me la mandi buona in tutti i sensi. Intanto, non so da chi mandata, quella è senza dubbio buona. In vent’anni da giornalista di donne ne ho conosciute tante, alcune bellissime. La bellezza non è mai razionale, anche se può essere un prodotto della razionalità. Ma, questa ha un non so che…Forse è il dialogo che rende le persone più belle» pensò il giornalista «dialogo che non si è esaurito, perché quello di domani è un appuntamento. Quanto a me, se la sentenza mi sarà avversa, potrò sempre vendicarmi non pagando un euro a nessuno, perché sono un senza famiglia in affitto, non sono a libro paga e non ci sono quinti di stipendio sequestrabili, non possono farmi bere la cicuta di Socrate né esiliarmi. Quanto al mio nemico, la sentenza avrà adeguati commenti da parte dei media e ne verrà quanto meno una pubblicità negativa. Il nulla è la paga dell’arroganza» e si avviò verso il portone della chiesa, perché il quarto si stava esaurendo.