Articolo pubblicato nella rivista Diritto e pratica delle società, n. 24 del 10 gennaio 2005, con titolo “Gruppi societari e vantaggi compensativi”

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1. Il gruppo” nel nuovo diritto societario

Il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, ha riservato l’intero Capo IX del Libro V del codice civile ai “gruppi societari” senza mai denominarli, né, per conseguenza, definirli. Però, si può facilmente dedurre la definizione dai rinvii all’art. 2359 c.c., in cui la società, in genere una holding, detiene partecipazioni di controllo in altre società, esercitando abitualmente, se non necessariamente, una funzione di direzione e coordinamento (art. 2497-sexies c.c.). Il “gruppo” è invece nominato nell’art. 10 della legge delega 3 ottobre 2001, n. 366, che ha dettato i principi e le linee direttive e particolarmente alla lettera a), che ha previsti « una disciplina del gruppo secondo principi di trasparenza e tale da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime ». Poiché i soci di minoranza sono tutelati da norme specifiche e la trasparenza e la pubblicità sono realizzate con forme adeguate e presunzioni relative (art. 2497-sexies c.c.), in questa nota l’analisi è ristretta all’adeguato contemperamento dell’ “interesse del gruppo e delle società controllate”, che il legislatore delegato ha regolato negli artt. 2407, comma 1, e 2497-ter c.c.

Dati i principi e le linee direttive del legislatore delegante, peraltro condivisibili, il compito del delegato non era certo facile, come sempre accade quando si devono comporre dialetticamente interessi contrastanti per natura, Però, non deve passare inosservata la constatazione che, mentre il delegante ha pensato in termini affermativi (disciplinare in modo “tale da assicurare”), il delegato ha legiferato in termini negativi (violazione dei principi di corretta gestione) [1], ciò che, però, non consente di applicare il brocardo lex ubi tacuiti voluit, perché l’art. 2497, comma 1, non contiene un elenco di operazioni proibite, ma solo il concetto, peraltro un po’ vago, di “violazione dei principi di corretta gestione”, lasciando così intenzionalmente ampio spazio alla discrezionalità del giudice del merito nell’interpretare l’estensione del principio di correttezza della gestione [2].

Il legislatore italiano arriva, come sempre, con ritardo di decenni soprattutto in diritto societario, codificando ciò che già è consolidato nella prassi e nella giurisprudenza. Al di là di forme esteriori, come la pubblicità e le motivazioni delle deliberazioni, i “gruppi” esistono da anni nel nostro contesto socio-economico e il Capo IX del Libro V non ne cambia certo la vita. Questa considerazione consente di prevedere che la giurisprudenza potrà avvalersi delle pronunzie precedenti, secondo principi di sostanza già consolidati.

 

2. L’attività di direzione e coordinamento

L’art. 2497, comma 1, c.c., da ritenere fondamentale, recita: « Le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili…».

Prima di analizzare il concetto di “direzione” è opportuno osservare che il gruppo è strutturato in funzione delle caratteristiche peculiari della linea economica che collega le varie imprese partecipate. Per esempio, la struttura economica di un gruppo alimentare, nel quale le singole imprese sono collegate in una filiera verticale di produzione e orizzontale di distribuzione, è probabilmente diversa da quella scelta da un altro gruppo, che pone nella “grande distribuzione al consumo” il proprio core business o, per fare altro esempio, la struttura di un gruppo meccanico è diversa da quella di un gruppo bancario o assicurativo. Si nota una certa propensione a commissionare all’esterno lo studio della struttura del gruppo, ottenendo prodotti standard preconfezionati, mentre l’organizzazione o la riorganizzazione dovrebbero essere esiti di analisi e soluzioni endogene. Queste osservazioni servono anche per constatare che le norme giuridiche non possono determinare le caratteristiche del gruppo, che trova, invece, la propria spiegazione in quel ramo dell’economia d’azienda che è l’organizzazione. Perciò, nonostante critiche anche incisive alle norme contenute nel Capo IX, soprattutto per una presunta inadeguatezza rispetto ai più ampi limiti della delega, la scelta di genericità del legislatore delegato può essere migliore rispetto a un imbrigliamento normativo destinato a rivelarsi una sovrastruttura, invece lascia spazio anche all’applicazione del principio dei “vantaggi compensativi”, dopo la “direzione”: l’altro aspetto fondamentale del problema.

a) Definizioni

Come già si è ricordato, la legge 3 ottobre 2001, n. 366, aveva delegato al governo, con l’art. 10, la riforma in materia di “gruppi” e in particolare alla lett a) aveva stabilito il principio, qui ancora riportato per comodità di lettura, di «…prevedere una disciplina del gruppo secondo criteri di trasparenza e tale da assicurare che l’attività di direzione e coordinamento contemperi adeguatamente l’interesse del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza di queste ultime…». In questa delega si rilevano tre locuzioni topiche: a) trasparenza, b) attività di direzione e coordinamento, c) contemperamento tra interessi del gruppo, delle società controllate e dei soci di minoranza, che possono essere così analizzate:

a) la trasparenza implica l’esplicitazione del regime di appartenenza al gruppo, all’uopo prevedendo forme di pubblicità (art. 2497­-bis c.c.);

b) l’attività di direzione e coordinamento esigerebbe una definizione, soprattutto perché non si tratta di termini giuridici con significato consolidato in altre norme a cui fare implicito rinvio. Questo spiega anche perché la presunzione dell’art. 2497-sexies c.c. sia iuris tantum;

c) il contemperamento di interessi, sottolineato dal rinvio “ai principi di corretta gestione societaria”, è un termine che ha più sfumature, ma il significato più adatto, che è anche la ratio dell’art. 10 cit. è, secondo i migliori dizionari: “mescolare con giusta proporzione”. Questa definizione letterale implica il riconoscimento che meritano tutela sia gli interessi della capogruppo e sia quelli della controllata, talché, pur essendo essi dialetticamente contrapposti, alla fine gli effetti della tutela risultino “mescolati” e, anche se la norma non lo dice, potenziati nella loro efficacia economica. Si tratta quindi dell’applicazione di un principio olistico e il risultato finale complessivo (si potrebbe dire consolidato) dovrebbe risultare maggiore della somma delle parti. Questa breve analisi non è una digressione filologica, ma è la premessa per rendere comprensibile il concetto costruito dalla dottrina e dalla giurisprudenza ben prima della riforma del diritto societario e noto con la locuzione “vantaggi compensativi”, ciò che comporta anche la considerazione che quella “mescolanza olistica” non si realizza per singole operazioni, ma in una esplicazione di più ampio arco temporale.

La locuzione “direzione e coordinamento”, non esisteva nel codice civile prima della legge delega e della sua attuazione e si deve cercare la sua provenienza, se si vuol stabilire la definizione, che il legislatore ha scansato di dare.

Innanzi tutto si tratta di un concetto presente da tempo nei paesi europei industrialmente più avanzati e con più lunga tradizione storica di gruppi societari organizzati, come nel diritto tedesco, dal quale è stata tradotta con “direzione unitaria” l’espressione einheitliche leitung e che fornisce la base per la normativa della Comunità Europea [3].

La legge 3 aprile 1979, n. 95, sulla “amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi” ha introdotto all’art. 3 il termine “direzione unitaria”, ma sempre in ottica negativa e responsabilistica per gli amministratori della società posta a capo del gruppo.

Però, si nota che nel Capo IX del codice civile, dopo la riforma del D.Lgs 6/2003, l’aggettivo “unitaria” più non compare. Proprio perché manca la definizione, ci si deve chiedere se la soppressione renda ancora possibile un riferimento al concetto del diritto tedesco e della precedente legge 95/1979. La risposta potrebbe essere affermativa e ciò consentirebbe di avvalerci delle esperienze definitorie storiche, seppur con attenzione, perché il contesto economico tedesco, che ha suggerito all’ordinamento di quel paese il concetto sopra richiamato, è diverso da quello italiano. Invece, è rilevante l’uso della termine “direzione”, che non deve essere interpretato come la funzione del direttore inteso come soggetto (se “generale” anche “organo”, secondo certa dottrina), ma come complesso di direttive impartite dalla capogruppo, che non si esauriscono in un impulso impartito “una volta ogni tanto”, perché il termine “direzione” è preceduto da “attività di”, che ha un significato chiaramente dinamico e complesso. Rilevante nell’art. 2497 c.c. è anche il termine “coordinamento” congiunto con una “e” ad “attività di direzione”, anche se sarebbe difficile pensare a una attività di direzione senza coordinamento, termine, quindi, che per quella “e” congiuntiva diventa così compenetrato in “attività di direzione”, da diventare pleonastico. Pertanto, l’intera locuzione “attività di direzione e coordinamento”, presa nel suo significato globale, riporta al concetto di “direzione unitaria”.

Si potrebbero così sintetizzare i precedenti (l’uso del condizionale sarà più chiaro successivamente), definendo, con P.G. Jaeger, F. Bonelli, G. Lo Cascio [4], la “direzione unitaria” e, per quanto sopra detto, l’ “attività di direzione e coordinamento”, come l’esercizio di un potere della capogruppo consistente: «nell’imposizione, agli organi direttivi della società controllata di decisioni provenienti dalla società dominante; nell’utilizzazione della controllata stessa come uno strumento della politica del gruppo, che si mira a gestire come un’entità unitaria, quasi si trattasse di una sola impresa ». Questa definizione, che è molto forte e da caso limite, non va presa alla lettera, perché imprecisa, dato l’avverbio “quasi”, ma soprattutto deve essere intesa in senso riduttivo, ancor più per i casi in cui una normativa comunitaria o nazionale imponga l’unbundling societario. Non solo, ma l’elasticità della definizione consente di affermare che ogni gruppo deve darsi propri regolamenti, affinché le linee guida possano costituire principi non equivoci di operatività nelle controllate. Sul piano economico l’attività di direzione e coordinamento deve consentire un potenziamento del risultato reddituale del gruppo e non una riduzione e questo si ottiene con la responsabilizzazione dei preposti nella controllata, non degli organi (per esempio: consiglio di amministrazione) a cui già provvede la legge. Il Capo IX potrebbe essere definito una norma non felice, anzi equivoca, perché, essendo incentrato sulla “responsabilità” degli amministratori della capogruppo, sembra aver cancellato l’autonomia degli organi sociali della controllata; ma così non è. Innanzi tutto, perché nello stesso art. 2497, pur essendo norma negativa, il riferimento della responsabilità è per la violazione “dei principi di corretta gestione”, che viene così riaffermata come punto di riferimento positivo per la conduzione del gruppo; inoltre, perché, se il legislatore avesse voluto sopprimere l’autonomia della controllata avrebbe scritto norme ben diverse.

Si deve anche considerare che in dottrina si è letta una coincidenza tra gruppo e direzione unitaria, al punto che non vi sarebbe gruppo senza direzione unitaria. Ma questa equivalenza non è condivisibile. La direzione unitaria è sì una caratteristica naturale del gruppo, ma non è essenziale e il gruppo non è una sua conseguenza necessaria [5]. Invece, il gruppo è una constatazione, che deriva dalla presenza di una società controllante e di una o più controllate e trova la sua natura nell’art. 2359 c.c., mentre la direzione unitaria è un modus di organizzare la gestione del gruppo, ciò che può consentire di constatare che vi può essere “gruppo” senza “direzione unitaria” per una o più società controllate. Si faccia l’esempio di un gruppo siderurgico, che decide di rilevare una catena di farmacie. Sarà pressoché impossibile che si possa instaurare una direzione unitaria, se, data l’assoluta diversità di oggetti sociali, alla direzione delle farmacie la legge impone strutture organizzative necessariamente autonome e responsabili secondo leggi sanitarie.

Ritengo, allora, proponibile la seguente definizione:

una società è soggetta ad “attività di direzione e coordinamento” di altra società, allorché la propria amministrazione, intesa come genus comprendente le tre species: gestione, organizzazione e rilevazione, è subordinata rispetto alle volizioni della dominante, che le manifesta in via continuativa o periodica con direttive e istruzioni operative, cui la dominata è tenuta ad adeguarsi.

Questa definizione, come tutte le definizioni, può non costituire la ineccepibile sintesi astratta del concetto, ma ha almeno il pregio di superare l’opinione di chi ritiene che la direzione si esplichi da parte degli amministratori della dominante sugli amministratori della dominata [6], il che non è necessario e sarebbe troppo restrittivo; anzi, si deve ritenere che non tanto gli amministratori della dominante, ma i suoi “uffici operativi” (direzione generale, direzioni settoriali, ecc.) emettano gli impulsi e le istruzioni, cui la dominata deve attenersi. Semmai gli amministratori della dominante, generalmente non necessariamente in ogni caso, stabiliranno le “politiche”, ma in questo caso, non tanto della dominata, quanto dell’intero gruppo e, se così è, il livello potrebbe essere diverso da quello della “direzione e coordinamento”. Si tratta poi, in concreto, di verificare i contenuti di quelle “politiche”. Se, per esempio, il consiglio di amministrazione della capogruppo deliberasse che tutte le società del gruppo, in primis la holding, devono perseguire una politica di riduzione dei costi a partire dal personale, non per questo si sarebbe in presenza di una “direzione unitaria”, ma della definizione di una comune strategia imprenditoriale, che potrebbe essere dettata dal mercato prima ancora che da un organo amministrativo.

b) applicazione

Date le definizioni sopra espresse, si deve constatare che:

i) direzione e coordinamento non sono attività che possono valicare i limiti dell’autonomia della società dominata (sarebbe opportuno, ma l’analisi si complicherebbe ulteriormente, fare collegamenti con il concetto di “abuso di posizione dominante”). Una società avente personalità giuridica non può limitarsi a una fictio iuris, al punto che i suoi amministratori siano ridotti a meri esecutori di decisioni già assunte altrove, per almeno due motivi:

a) essi devono perseguire il lucro della loro società al meglio delle possibilità, pena la violazione dei loro obblighi derivanti dal rapporto organico, non di semplice mandato [7], sanzionata dalla legge. Ne sono prova, l’art. 2391 c.c., per gli amministratori che rivestano tale carica nella dominante e nella dominata, che non è stato cancellato dal codice, ma solo modificato, e l’art. 2395, che continua a offrire tutela al socio di minoranza, a cui il nuovo art. 2497-quater ha affiancato l’opzione di recesso in date circostanze;

b) l’attività di direzione e coordinamento deve esplicarsi secondo “principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale”, come recita l’art. 2497, comma 1, riportato all’inizio. Su questo punto si devono svolgere riflessioni su tre locuzioni topiche:

1) “corretta gestione”, ove l’aggettivo “corretta” implica anche il rispetto delle autonomie giuridiche degli organi della dominata;

2) “gestione societaria”, ove l’aggettivo “societario” rafforza e qualifica il precedente punto. Se la dominante pretendesse di ridurre il consiglio di amministrazione della dominata a un mero “ufficio esecutivo” della gestione, integrerebbe un caso di “scorretta gestione societaria”, con le conseguenze del caso, soprattutto se la dominante è quotata in borsa. Si pensi, quasi per provocatio, all’amministratore della dominata che denuncia alla Consob la violazione del principio di “corretta gestione societaria” e se ne ipotizzino gli effetti!

3) “gestione imprenditoriale”, ove l’aggettivo “imprenditoriale” ha una portata ancor più vasta e oggettiva. Si ricordi che il “rischio” è la nota caratteristica dell’attività dell’imprenditore. Ora, se la dominante imponesse il compimento di operazioni meramente aleatorie, o comunque ad alto rischio, non solo vi sarebbe una sua responsabilità diretta, ma gli stessi amministratori della dominata incapperebbero in sanzioni, a nulla valendo che siano stati esecutori di istruzioni imposte dall’attività di “direzione e coordinamento” della dominante;

ii) la società dominata può avere vantaggi derivanti dalla sua appartenenza a un “gruppo”, come si vedrà al successivo § 4.

 

Prima di esaminare il punto ii) è opportuno riportare un brano da un testo, che serve da collegamento. Scriveva, vent’anni or sono, F. Bonelli a pag. 267 del testo citato in nota 4):

« Nel concreto, tale direzione unitaria potrà dedursi sia dall’esistenza di “istruzioni (particolarmente convincenti) che promanano dagli organi direttivi della società dominante e pervengono a quelli della dominata”, sia dall’esame concreto delle modalità e delle forme di gestione della società controllata (le singole situazioni possono essere molto diverse; si pensi comunque ai casi in cui la società controllante, in toto o in parte: stabilisca quali siano le nuove iniziative da assumere e quale sia la controllata che deve porle in essere; reperisca il fabbisogno finanziario per tali iniziative e/o per la normale gestione, o comunque indichi le vie per tale reperimento nell’ambito di una gestione finanziaria centralizzata; determini le politiche di bilancio della controllata; dia indicazioni sui contraenti di privilegiare e sulle condizioni contrattuali, specie nei rapporti tra società del gruppo; ecc.).

La direzione unitaria non è di per sé illegittima né la norma in esame [95/1979] vuole sanzionarla. È comune infatti l’osservazione che ciò che è illegittimo e sanzionato è solo “l’abuso della posizione dominante” della capogruppo che esercita la direzione unitaria; di per sé la direzione unitaria del gruppo, se esercitata correttamente, sviluppa sinergie e vantaggi dei quali tutte le (autonome) società collegate usufruiscono, talché sarebbe incongruo vietarla e sanzionarla ».

La prima parte del brano può essere condivisa ma con riserve, anche perché si tratta di elencazione di condizioni che non è precisato se concomitanti o no, nel senso che debbano operare tutte insieme e contestualmente oppure sia sufficiente anche una sola per integrare il caso di “direzione unitaria”. Ritengo che l’elenco valga solo come esemplificazione da valutare in senso critico. Invece, la seconda parte introduce il concetto dei “vantaggi compensativi”, anticipando la giurisprudenza che si è affermata successivamente nella sentenza Corte di cassazione, 11 marzo 1996, n. 2001.

3. L’esistenza di contratti di servizio e di fornitura

 

Ulteriori problemi interpretativi sorgono quando si mettano in relazioni i contratti di servizio e di fornitura all’interno del gruppo con l’attività di direzione e coordinamento. Ovviamente i due tipi di contratto non devono essere cumulati nello stesso ordine di relazioni, anche se presentano alcuni aspetti comuni.

Si può ritenere, soprattutto per i contratti di servizio, che, al limite e quando esauriscono i rapporti tra società dominante e dominata, possono escludere direzione e coordinamento. Infatti, la direzione implica l’esistenza di un rapporto di carattere impositivo dinamico e variabile nel tempo, mentre il contratto di servizio è di natura sinallagmatica e una volta stipulato, ognuna delle parti è tenuta al proprio adempimento. Semmai può manifestarsi una posizione di dominio nel momento della stipulazione, ma se l’assunzione del rapporto avviene a condizioni di mercato, il rapporto può rientrare nella normalità. Non può esserci differenza tra la stipulazione di un contratto in outsourcing esterno rispetto a uno interno coeteris paribus e come non c’è “direzione” con il primo, così mancherebbe nel secondo, ancorché la scelta fosse orientata a prestazioni fornite preferenzialmente dalla dominante, se c’è parità di condizioni. Così si può dire dei contratti di fornitura, che non restano assorbiti nel dominio, se i rapporti si svolgono nella normalità di quelli abituali tra cliente e fornitore. Peraltro, il coeteris paribus rientra nelle regole di buona organizzazione, soprattutto se si pretende di responsabilizzare i gestori (amministratori e manager) della dominata verso l’obiettivo della massimizzazione dell’utile, ancorché questo rientri in una “politica di gruppo”. Si noti che questa considerazione può essere valida, in certe condizioni, anche senza il coeteris paribus, se interviene il principio dei “vantaggi compensativi”. Il problema, come si può notare, è assai complesso e può trovare una soluzione soddisfacente nella correttezza e nella normalizzazione dei rapporti, così ritornando al punto iniziale del principio richiamato dall’art. 2497 della “corretta gestione societaria e imprenditoriale”.

4. I vantaggi compensativi

La teoria dei “vantaggi compensativi” proposta dalla dottrina è stata riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di cassazione nella già richiamata sentenza 11 marzo 1996, n. 2001 [8], che recita:

«La cessione gratuita di un credito tra società facenti parte di un gruppo non va qualificata come donazione nel caso la cedente, società controllata, l’abbia posta in essere in esecuzione di direttive impartite dalla capogruppo o comunque di obblighi assunti nell’ambito di una più vasta aggregazione imprenditoriale e l’atto risulti preordinato al soddisfacimento di un ben preciso interesse economico, sia pure mediato e indiretto.

Per verificare se un’operazione abbia comportato per una società facente parte di un gruppo un depauperamento effettivo occorre tener conto della complessiva situazione che a quella società fa capo, potendo l’eventuale pregiudizio economico aver trovato la sua contropartita in un altro rapporto ».

Osserva Giuseppe Sbisà, in uno dei primi e rari commenti sul punto: « Varia il modo di intendere in che cosa debba consistere la compensazione individuata… nella più recente proposta interpretativa, in una valutazione dei benefici anche non immediati, ma ragionevolmente certi, che possono derivare alla società controllata anche su piani e ambiti diversi da quelli inerenti all’operazione imposta dalla capogruppo ». [9]

Il concetto fondamentale si sintetizza nella considerazione che l’appartenenza a un “gruppo” crea vantaggi in re ipsa, talché le operazioni che caratterizzano l’interscambio tra dominante e dominata non devono essere valutate isolatamente, ma come parte di un rapporto più ampio sia negli oggetti e sia nel tempo di svolgimento. In concreto è possibile che la singola operazione possa avvenire a condizioni economiche non del tutto favorevoli per la società dominata, se essa trova, come normalmente accade, compensazione nei più ampi vantaggi di appartenenza al gruppo, ma anche viceversa, come quando è la dominante a instaurare un rapporto per essa poco favorevole, ma è compensata dalla operatività generale della dominata. Il problema non è di facile soluzione, perché sembra in contraddizione con il principio che l’amministratore deve fare l’interesse della propria società e non può essere portatore di conflittuali interessi propri o di altri. In realtà l’amministratore non può restringere il suo operato a decisioni isolate e frammentarie, ma deve avere la sensibilità di inquadrare le singole operazioni nei flussi e nei riflussi dei rapporti di interscambio. Questa capacità di valutare l’interesse della singola società amministrata consente di non chiudere la sua gestione nel ristretto ambito di un isolamento sterile, ma in una dimensione dialettica con il gruppo. Ciò comporta la capacità di difendere gli interessi della propria società senza chiudersi ai vantaggi che derivano da economie globali e con vantaggiosa finale ricaduta sulla società amministrata. D’altra parte, è lo stesso tipo di sensibilità che occorre dimostrare anche con il mondo esterno (gli stakeholder) e che è la spiegazione dell’attività dell’amministratore nella ricordata nuova definizione dell’art. 2392 c.c.. Per esempio: un amministratore che occhiutamente facesse l’interesse della società amministrata con un contratto giugulatorio con un cliente non potrebbe sostenere di aver fatto l’interesse della società, legittimità a parte per la singola operazione, se poi perde il cliente e sacrifica i vantaggi di un rapporto duraturo. Se questa è la regola per i rapporti esterni, non si capirebbe perché non si dovrebbe applicare analogo concetto per quelli infragruppo.

Il D.Lgs. 6/2003 non ha esplicitamente affrontato il problema, ma ne ha indirettamente trattato la soluzione con il nuovo art. 2391 c.c.. La novità consiste nell’escludere, rispetto all’omologo ante D.Lgs 6/2003, il divieto di partecipazione alla deliberazione da parte dell’amministratore in conflitto, sostituendolo con un obbligo di circostanziata motivazione della deliberazione [10]. È evidente che lo spostamento dal soggetto all’oggetto dà importanza all’aspetto economico della singola operazione, che non è più vietata se l’amministratore ha un interesse proprio o per conto anche se conveniente per la società, come ha sostenuto in passato certa giurisprudenza, ma se ne legittima la convivenza, nel senso che è importante che l’operazione sia vantaggiosa per la società, ancorché conveniente “anche” per l’amministratore, per sé o per altri [11]. Fanno da corollario a questo principio, gli articoli del citato Capo IX per la presunzione di direzione e coordinamento e l’obbligo di pubblicità del regime di sudditanza della società controllata. Il nuovo sistema, riconoscendo il gruppo societario e la naturalezza che l’organizzazione cali la singola società nell’ambito dei rapporti ricorrenti con il resto del gruppo, consociate comprese, pone quindi il problema della economicità delle operazioni in una visione più ampia e articolata, prevedendo il coordinamento come regola, secondo la presunzione iuris tantum dell’art. 2497-sexies c.c.

5. Conclusione

Come si è ricordato, dottrina e giurisprudenza già avevano sviluppato concetti poi recepiti nel nuovo diritto societario e la constatazione rende non superati principi consolidati. Semmai, le nuove norme aprono più ampie possibilità di sviluppo e di motivazioni, ma creano anche altre difficoltà di coordinamento con il diritto tributario, per le operazioni infragruppo tipiche della “direzione e coordinamento” del Capo IX, viste da sempre con malcelato sospetto. La constatazione che la presunzione di elusività dettata dall’art. 110, comma 7 del Tuir 917/1986 (già n. 76, comma 5, ante D.Lgs. 344/2003) per le società multinazionali non sia stata estesa ai “gruppi” nazionali deve, peraltro, confrontarsi con l’aggiunta della lettera f-bis) nell’art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, in evidente contraddizione con la dinamica economica delle operazioni infragruppo.

Pietro Bonazza

 


 

[1] Nella Relazione ministeriale al D.Lgs., cap. 13, si legge: « …si è ritenuto che il problema centrale del fenomeno del gruppo fosse quello della responsabilità, in sostanza della controllante, nei confronti dei soci e dei creditori sociali della controllata ».

[2] Si legge nella Relazione, cit.: « Spetterà a dottrina e giurisprudenza individuare e costituire i principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria posti nel nuovo testo a tutela del bene…».

[3] Johannes Fabio, La giurisprudenza della Corte Federale tedesca sulla direzione unitaria nel gruppo di fatto qualificato, in “Giur comm.” 1994, n. 21.3, II, pag. 358.

[4] cfr. P.G. Jaeger, “Direzione unitaria di gruppo” e responsabilità degli amministratori, in “Riv. soc.”, 1985, n. 4-5, pag. 817; F. Bonelli, Gli amministratori di società per azioni, Milano, 1985, pag. 265.

[5] Si veda, per esempio, R. Tiscini, La direzione unitaria nel gruppo di imprese nell’esperienza dell’amministrazione straordinaria, in “Dir. fall.“, 1986, n. 4. I, pag. 513 e 516.

[6] F. Bonelli, cit., pag. 267.e nota 226 per riferimenti ad altri autori.

[7] Si osservi che nell’art. 2392 c.c.¸ ante riforma, l’amministratore doveva agire “con la diligenza del mandatario”, mentre nella versione innovata gli amministratori devono adempiere i loro doveri “con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. La differenza non è insignificante e, peraltro, si osserva che il D.Lgs. 6/2003 non ha fatto altro che recepire gli insegnamenti di dottrina e giurisprudenza, fermi nel ritenere che il rinvio al mandato non era da intendere tanto all’art. 1710 c.c., ma alla diligenza del buon padre di famiglia, adattata alla specificità della funzione di amministrazione.

[8] In Giur. comm., 1996. N. 23.5, II, pag, 643.

[9] G. Sbisà, Responsabilità della capogruppo e vantaggi compensativi, in “ItaliaOggiSette”, 16.6.2003.

[10] Si noti che anche per l’amministratore delegato non c’è obbligo di astensione alla deliberazione, ma divieto di “adempimento dell’operazione” (si veda l’estensione all’amministratore unico con decreto legislativo correttivo al D.lgs. 6/2003, approvato dal Consiglio dei ministri il 28.10.2004).

[11] Corte cass. 4 aprile 1998, n. 3483, in Dir fall., 1999, n. 5, II, pg. 1032, con nota di commento di P. Bonazza, Conflitto di interessi dell’amministratore, conferma o revirement della giurisprudenza della suprema Corte?