Esibizionismo

 

La tecnologia dilagante non è innocente verso l’uomo, perché gli ha atrofizzato le radici con se stesso. L’homo sapiens sapiens è stato sostituito dall’homo technologicus, sicché, invece di essere la tecnologia che è dominata dall’uomo, è questa che ha invaso e sta annullando l’essenza dell’uomo non più capace di porsi il problema dell’essere accontentandosi della constatazione dell’esistere. Il fenomeno non è solo sociologico, ma è diventato antropologico. Potremmo consolarci con la constatazione che continua a esistere la scienza, ma anche qui il feedback scienza-tecnologia sta correndo a favore della tecnologia, che la spinge verso un neopositivismo deleterio per la scienza stessa. Si potrebbe dire che l’uomo non va più in pellegrinaggio a Delfi a leggere l’ammonimento sul frontone del tempio: “conosci te stesso”, cioè – e sembra una traslazione gratuita ma non lo è – l’astrofisico che scruta il firmamento, il fisico che analizza la materia quantistica, il biologo che studia l’evoluzione della cellula, non si pongono più il problema del dio che ci sta dietro o che è all’origine delle cose, uomo compreso. L’uomo che trascura l’avvertimento di Delfi recide il proprio rapporto con le cose e, prima ancora con se stesso. Se la scritta di Delfi anziché in forma assertiva fosse interrogativa, la risposta sarebbe: no. L’allontanamento o addirittura l’annullamento del rapporto dell’uomo con l’essere, con il suo essere concreto e reale, non salva l’esistere, tale è la derivazione dell’esistere dall’essere, come se dell’uomo restasse solo la forma e non la sostanza, che è poi la sua essenza o, con altro termine, la sua “anima”. Non vale il ragionamento del non credente che con la morte tutto si estingue, cessa di esistere, perché, oltre che essere troppo facile, resterebbe insoluto il problema dell’anima a cui nessuno è disposto a rinunciare. La negazione dell’essere lascia l’esistere non solo monco, ma addirittura estinto. L’avvertimento di Delfi trova una conferma potente nei Vangeli: Marco 8,36 e Luca 9,25. Chiede il Cristo: «Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?», ove il significato di “perdere” è un “non conoscere”. Altrettanto potente è il significato del sacramento della Confessione nella dottrina cattolica, perché implica una conoscenza di sé, senza la quale quel sacramento non avrebbe senso. Si torna a Delfi, all’invito a conoscere se stessi, cioè la propria realtà, la propria essenza, il proprio “essere”, alla propria personale ontologia, che dà senso al proprio esistere o, meglio: al proprio pre-esistere e al post-esistere. È l’anima che esige il proprio tributo di riconoscimento ed è un fatto personale, non delegabile, non chiudibile in un tabernacolo filosofico del tipo “io” o “non io”. La strada verso la coscienza dell’essere non è disegnata da una guida turistica ed è un itinerario personale. Le esperienze di altri possono essere un sussidio ma non una lezione. La guida può condurci davanti alla statua della “Pietà Rondanini” di Michelangelo, ma la sua interpretazione e l’emozione che ne deriva restano un fenomeno esclusivamente personale, perché rimandano al proprio essere, perché Michelangelo non parla al nostro esistere, ma al nostro essere.

In proposito non si può non richiamare la famosa terzina nel canto XXVI dell’Inferno, in cui Dante fa dire a Ulisse rivolto ai suoi compagni dell’ultimo viaggio:

 

«Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza.»

 

ove per “semenza” si deve intendere “essere”, “essenza” dell’uomo che non si limita a esistere.

Queste osservazioni non riguardano l’intera umanità, per fortuna, ma il fenomeno denunciato è una tendenza della nostra epoca, è una realtà negativa per la maggioranza, specie giovanile, che si alimenta di droga: cioè il rifiuto del riconoscimento della propria essenza e la sostituzione del sé con un altro, artificiale, quello generato dalla droga, che si riduce a un suicidio strisciante.

Inoltre, c’è un altro fenomeno, apparentemente innocuo, ma rivelatore del rifiuto di sé stessi: all’essere si sostituisce l’apparire. È pur vero che l’uomo che cerca il proprio essere e lo trova desidera esternare agli altri la propria conquista, cioè farla apparire; ma un conto è comunicare l‘esito dopo la propria scoperta e altro è pubblicizzare il proprio esistere fine a se stesso. È l’esistere senza l’essere, la tecnologia senza la scienza, l’homo technologicus senza l’homo sapiens.

Dunque, la tecnologia consegnata alla massa genera le aberrazioni dell’apparire. La comunicazione diventa la caratteristica dominante della nostra epoca e alla portata di tutti. L’esempio eclatante è nell’uso deleterio dei cosiddetti social network, arena di sfogo dei cretini, figli di una madre sempre incinta, che si sentono realizzati nell’esternazione delle loro aberrazioni scritte e visive. Apparire è ciò che conta: odio, esibizione ed esaltazione della loro criminalità, assenza di freni inibitori, pubblicizzazione delle loro prestazioni sessuali che dimostrano l’assenza di un minimo di decenza, manifestazione compiaciuta della propria vuotità. È il popolo che parla, illuso che questa esteriorizzazione sia affermazione di libertà. Le performance sessuali, che un tempo si svolgevano nella discrezione di fienili e pagliai ora si sono trasferite sull’aia. I deficienti non si accontentano delle loro meschinità: vogliono anche essere guardati, ammirati dalla massa e, prima ancora, vogliono vedersi, ammirarsi. Questo è l’apparire che ha annullato il senso dell’essere, che alla fine non lascerà in vita nemmeno l’esistere assorbito in un nichilismo integrale e irreversibile.

L’avvertimento di Delfi: “conosciti”, è stato deformato in “ammirati”, “esibisciti”. Narciso si sarebbe rifiutato di guardarsi. L’Ulisse dantesco naviga oltre le colonne d’Ercole in cerca dell’essere, l’homo techonologicus si esibisce in panciolle sulla spiaggia del nulla.