Religione e popolo

 

Vi sono molti modi per considerare l’importanza della religione nel contesto sociale. Può essere causa di conflitti sanguinosi, ma anche attenuazione di contrasti. Ricordiamo due giudizi celebri, ma spesso fraintesi.

Nei “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” (prima pubblicazione 1531), Niccolò Machiavelli scrive:


«Quelli principi o quelle republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la religione dove l’uomo è nato; perché ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo….».

                                                      

Nei «Saggi» (prima pubblicazione 1580), II, cap. XII, M. E. de Montaigne, scrive:

 «Tuttavia, il mio pensiero è questo: che ad una cosa cosí divina e cosí solenne, che a tal segno oltrepassa l’intelletto umano, come è il caso di questa Verità, con la quale il buon Dio si è compiaciuto di illuminarci, è necessario che egli non ci lasci mancare il suo aiuto, una particolare e straordinaria benevolenza, perché noi possiamo impadronircene e farla nostra e non credo che i mezzi umani ne siano da soli capaci; e, che, se essi lo fossero, gli uomini eccezionali ed eccellenti, cosí numerosi, e cosí abbondantemente forniti di forze naturali degli antichi secoli, non avrebbero mancato di giungere colle loro argomentazioni a questa conoscenza. Soltanto per mezzo della fede possiamo abbracciare in modo vivo e con certezza gli alti misteri della nostra religione. Ma questo non significa che non sia un disegno sublime e degno di lode quello di rivolgere al servizio della nostra fede gli strumenti naturali ed umani che Dio ci ha dato. Non si può dubitare che non sia questo l’uso piú degno che noi sapremmo farne, e che non vi è occupazione o disegno piú conveniente al cristiano, di quello di dirigere interamente i suoi studi e pensieri ad abbellire, estendere ed ampliare la Verità della sua religione. E come non ci accontentiamo di servire Dio con l’anima e con lo spirito: ma gli dobbiamo, e gli rendiamo anche una riverenza fisica, applicando le nostre membra, i movimenti e le cose alla sua glorificazione; lo stesso occorre fare con la ragione, colla quale dobbiamo accompagnare la nostra fede; ma sempre con questa riserva, di non arrivare a pensare che essa dipenda da noi, e tanto meno che i nostri sforzi e le nostre argomentazioni possano attingere una scienza cosí sovrannaturale e cosí divina.

Ma se essa non viene a noi attraverso una sovrannaturale infusione; se essa ci viene attraverso le parole, e per strumenti umani, essa allora non è in noi nella sua completa grandezza e splendore. E certo io temo che sia questa la sola via per la quale noi possiamo goderne. E se arrivassimo a Dio per mezzo di una fede viva, se arrivassimo a lui con mezzi divini e non con mezzi umani; se avessimo passo e consistenza divini, l’umana situazione non avrebbe la possibilità di intralciarli, siccome invece fa; la nostra cittadella non si arrenderebbe davanti ad assalti cosí deboli: l’amore della novità, la costrizione del principe, il successo di un partito, l’oscillazione sconsiderata e fortuita delle nostre opinioni, non avrebbero la forza di scuotere o di alterare la nostra religione; non la lasceremmo esposta a nuovi argomenti e convincimenti, e meno che mai a tutte le retoriche che mai vi sian state: ma ci opporremmo a questi colpi con sicurezza inflessibile ed assoluta: “Come una rupe possente respinge i flutti, ed infrange intorno le onde incalzanti con la sua mole” (Anonimo). Se questo raggio della divinità ci toccasse in qualche modo, esso dovrebbe manifestarsi dappertutto; non soltanto le nostre parole, ma anche i nostri atti ne porterebbero la lucida impronta. Tutto ciò che da noi proviene lo vedremmo illuminato di questa divina chiarezza. Dovremmo provar raccapriccio che esso sia fatto settario, quale che fosse la difficoltà inerente ad esso; che non si siano conformati ad esso il comportamento e la vita: un istituto cosí divino e celeste si riscontra nei cristiani soltanto a parole…».

I due autori hanno una visione evidentemente diversa del problema:

– Machiavelli, tanto vituperato perché incompreso, fa considerazioni di carattere pratico-politico e, si noti, particolarmente attuali in questa nostra epoca in cui la secolarizzazione, che sembra travolgere ogni tradizione, non risolve certo i conflitti sociali, perché non sa proporne di alternativi. Il Segretario fiorentino ci  direbbe che la nazione per essere tale deve comprendere il “fenomeno religione”, quale componente fondamentale della koiné, che non nega la fondamentale libertà di ogni individuo, ma irrobustisce il senso comunitario di un popolo:

– Montaigne è più spirituale e teologica e risente dei sanguinosi conflitti religiosi della sua epoca, mai metabolizzati, che permangono nell’Europa dei nostri giorni,

ma l’insieme delle posizioni di questi due giganti del pensiero europeo fornisce un quadro significativo del problema dei rapporti religione-popolo.

Nei secoli sono state scritte intere biblioteche e non è certo intenzione aggiungervi altro: negli scritti dei due filosofi è già tutto risolto.