PRINCIPI DI PRUDENZA E DI CONTINUITÀ AZIENDALE

 
Il codice civile detta criteri apparentemente diversi per la liquidazione della quota o del pacchetto azionario del socio uscente. È ovvio che la liquidazione, da intendere come determinazione di un valore, è solo la fase penultima seguita dal pagamento e preceduta da un processo di valutazione, che sembra diverso per le società di persone, le società a responsabilità limitata e le società per azioni.
L’inizio della catena dei problemi suscitati dal processo valutativo è nella definizione dell’art. 2247 cod. civ. che vale per tutti i tipi di società, testualmente: «Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o sevizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili». Questo è il momento iniziale positivo: la nascita della società, cui fa seguito un momento negativo, certo sul se, ma incerto sul quando, come è destino ineluttabile di tutte le opere dell’uomo, che può essere o la liquidazione della società o quella del singolo rapporto societario per “esclusione” nelle società di persone (art. 2286 cod. civ.) e nelle società a responsabilità limitata (2473-bis) o per recesso nei tre tipi di società (artt.2285, 2437 e 2473 cod. civ.). Si nota, per inciso, che per le società per azioni la legge non prevede l’esclusione dell’azionista, ad eccezione del caso di inadempimento grave di prestazioni accessorie e lo statuto la stabilisca quale sanzione, come consente l’attuale art. 2345, peraltro già anticipata da Trib. Milano, nota del Presidente del 5 ottobre 1998 in Riv. Soc. 1999, n. 1, pag. 260.
Nell’esaminare separatamente, almeno nel momento iniziale, i tre criteri, si deve innanzi tutto verificare il grado di esclusività o, invece, di solo indirizzo delle tre norme.
 

  1. A) Per le società di persone, l’art. 2289 cod. civ. stabilisce al comma 2:

«La liquidazione della quota è fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento»
e al comma 3: «Se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti alle operazioni medesime».
Sembra evidente, almeno da un punto di vista dell’economia aziendale, che una situazione patrimoniale aggiornata con il risultato economico degli affari in corso al giorno in cui si verifica lo scioglimento è, in realtà, un bilancio straordinario aggiornato, con inclusione delle correzioni per rivalutazioni e/o svalutazioni di elementi dell’attivo e del passivo, compreso un avviamento (goodwill) o un disavviamento (badwill), se esistenti. Non avrebbero senso – ed è significativo che il legislatore non li abbia usati – riferimenti a un patrimonio netto “contabile” o a figure diverse dal capitale economico, che è insito nella inclusione degli esiti degli affari in corso, i quali, proprio per la non ancora avvenuta conclusione, hanno una proiezione differita nel tempo. È altrettanto evidente che il legislatore non sta riferendosi a un capitale di liquidazione, invece, è implicito il rispetto del principio della continuità aziendale. La conferma che la “situazione patrimoniale” del comma 2 debba essere un bilancio straordinario è desumibile dal comma 1 che recita:
«Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente a un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto a una somma di denaro che rappresenti il valore della quota». Ma il valore “della quota” è proprio quello derivante da un bilancio straordinario, che determini il capitale economico. Da qui la constatazione che i commi 2 e 3 sono norme esecutive (per non dire pleonastiche), perché hanno la funzione di ricordare che lo strumento è una “situazione patrimoniale” (bilancio straordinario) alla data dell’evento, ma senza dimenticare il valore economico delle operazioni in corso.
 

  1. B) Per le società a responsabilità limitata, l’art. 2473, comma 3, recita:

«I soci che recedono dalla società hanno diritto di ottenere il rimborso della propria partecipazione in proporzione del patrimonio sociale. Esso a tal fine è determinato tenendo conto del suo valore di mercato al momento della dichiarazione di recesso …». Nel diritto italiano si intende per “valore di mercato” il prezzo che un libero compratore è disposto a pagare e un libero venditore è disposto a ricevere per un bene o un complesso di beni (anche una universitas facti). Ma, fare riferimento al “mercato” lascia il  concetto nel generico e nell’indeterminato, perché, se si tratta di un bene (immobile, macchinari, auto usate, ecc. o di beni previsti in listini più o meno ufficiali),  il rinvio può avere concretezza, ancorché non assoluta, ma se si tratta di un complesso aziendale, quale il valore di una società, allora il rinvio può essere vago e inutilizzabile, per il semplice fatto che non esiste il mercato delle aziende, essendo ognuna talmente caratterizzata da non avere un “mercato”. Ogni impresa riflette le caratteristiche peculiari per management, know-how, stockholder, organizzazione, brevetti, localizzazione, ecc., che esigono considerazioni e valutazioni specifiche. Allora, quella locuzione “patrimonio sociale” non può significare capitale netto contabile della società, ma “capitale economico”, che nella letteratura italiana si intende comprensivo del valore di aggiornamento degli enti attivi e passivi, degli affari in corso e anche dell’avviamento, che riflette particolarità attuali e attese future. Cosicché, la definizione dell’art. 2473, comma 3, finisce per avere lo stesso significato di quella espressa nell’art. 2289, commi 2 e 3. Ma, allora, che resta di particolare nella locuzione “valore di mercato” dell’art. 2473, comma 3? Resta una pretesa di oggettività del valore, che il mercato, quando c’è, è in grado di esprimere e quando non c’è si deve intendere: le condizioni di libertà nella posizione dei due scambisti, come se operassero in un “libero mercato”;
 

  1. C) Per le società per azioni, l’a 2437-ter, recita:

al comma 2:
«Il valore di   liquidazione delle azioni è determinato dagli amministratori, sentito il parere di […], tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni»;
al comma 3:
«Il valore di liquidazione delle azioni quotate in mercati regolamentati è determinato facendo esclusivo riferimento alla media aritmetica dei prezzi di chiusura nei sei mesi che precedono la pubblicazione ovvero ricezione dell’avviso di convocazione dell’assemblea e cui deliberazioni legittimano il recesso»;
al comma 4:
«Lo statuto può stabilire criteri diversi di determinazione del valore di liquidazione indicando gli elementi dell’attivo e del passivo del bilancio che possono essere rettificati rispetto ai valori risultanti dal bilancio, unitamente ai criteri di rettifica […]».
 
Trascurando la possibilità di diversa previsione statutaria del comma 4, che vale per le società quotate e le non quotate, si notano  due caratteristiche : a) il comma 2 prevede che sia tenuto conto delle “prospettive reddituali”, il che ci riporta al valore del capitale economico, come per le società di persone e le srl, anzi confermando implicitamente che anche  per queste vale l’inclusione di rettifiche e di avviamento; b) il comma 3, riservato alle quotate, detta un rinvio “esclusivo” alla Borsa (salvo la diversa previsione statutaria, come già notato), dimostrando la fede del nostro legislatore nella oggettività dei prezzi di borsa, il che è quanto meno ingenuo, come ognun sa. Ma la fiducia del legislatore lascia intendere l’ipotesi che il mercato, cioè la borsa, sia in grado di includere nei prezzi tutte le rettifiche e gli avviamenti da attribuire alle società quotate e che il valore di capitalizzazione, ottenuto moltiplicando il prezzo della singola azione per il numero di azioni in circolazione, esprima il valore del capitale economico.
Con le osservazioni espresse nei tre punti precedenti, si ritiene dimostrato che il criterio di valutazione per i tre tipi di società sia uno solo, al di là delle espressioni formali delle norme specifiche e questo criterio è il riconoscimento che la singola quota deve essere valutata in proporzione al valore del capitale economico.
Questa constatazione ci consente di stabilire il grado di coerenza tra due principi fondamentali: il “principio di prudenza” e il principio della “continuità aziendale”.
Seppure il principio di prudenza, derivato dal principio generalissimo del ”buon padre di famiglia”, permanga nel nostro codice civile (art. 2423-bis, cod. civ.), ha subito e sta subendo attacchi e limitazioni con l’avvento dell’ideologia dei principi IAS e in particolare del fair value, che sta diffondendosi anche per le società non quotate, sostituendo alla prudenza la contingenza e l’attualità, come se il mondo dell’economia aziendale trovasse espressione nei giochi delle borse. È il risultato dell’imperialismo ideologico americano, a cui si è subordinata l’Europa dimentica dei principi ragionieristici italiani e tedeschi, subordinatisi alle regole di paesi in cui domina la finanza rispetto all’economia di produzione.
Per il nostro codice il principio di prudenza è congiunto a quello della continuità aziendale, come si evince dall’art. 2423-bis, comma 1, n. 1, che recita: «Nella redazione del bilancio devono essere osservati i seguenti principi: 1) la valutazione delle voci deve essere fatta secondo prudenza e nella prospettiva della continuazione dell’attività, nonché tenendo conto della funzione economica dell’elemento dell’attivo o del passivo considerato…». La norma riproduce in sostanza la classica definizione di azienda di Gino Zappa, secondo cui è “un istituto economico destinato a perdurare”, cioè è una universitas facti di fattori legati in sistema con una “funzione economica” idealmente comune.
Ci si chiede, a questo punto, come influiscano questi concetti, che poi sono uno solo, nel momento in cui si deve attribuire all’azienda un valore, per derivarne quello della quota assegnabile al singolo socio in caso di scioglimento del suo personale rapporto. Si osserva, innanzi tutto, che è invitabile fare prima un bilancio, da correggere poi con le rettifiche per aggiornare i valori storici dei singoli elementi dell’attivo e del passivo alla realtà del momento, che non è solo quella attingibile dal mercato dei singoli beni, ma quella specifica che deriva dalla loro funzione economica nel contesto aziendale e qui è evidente che il quadro, in cui si deve rispecchiare la valutazione, è quello della continuità dell’attività, cioè al suo “perdurare”, diversamente da quel che avviene in caso di liquidazione dell’azienda.
Il valore del capitale economico, comune determinazione per i tre tipi di società, è l’obiettivo che realizza, il valore di liquidazione della singola quota.
Non bisogna però dimenticare che il principio della prudenza e quello della continuità aziendale, applicati insieme e contestualmente, determinano, come vuole l’art. 2423, comma 1, n. 1, il valore di una singola quota partecipativa, la cui liquidazione e il successivo esborso monetario, sia che si tratti di recesso sia di esclusione, gravano sulla società, con effetti diretti sul patrimonio sociale e sulla liquidità, che vengono intaccati in molti in casi in misura determinante. Ne deriva che, se la vitalità della società è posta a rischio, non si può più parlare di “continuità aziendale” e può accadere che al criterio di valutazione dell’azienda in attività si deve sostituire il presumibile valore della quota del recente o dell’escluso ottenibile dalla liquidazione dell’intero contesto, che non può certo essere quello di un’azienda in funzionamento. Si ricorda che la liquidazione, come reazione a una dichiarazione di recesso che si prevedesse esiziale per la sopravvivenza della società per azioni, quindi a rischio di impossibilità della continuità aziendale, è prevista dall’art. 2437-bis, ultimo comma, che recita: «… a meno che i soci preferiscano sciogliere la società.»
La valutazione, sia in caso di “perdurare” dell’azienda in funzionamento sia in quello di liquidazione, si basa su prospettive prudenziali e reali secondo principi di ragionevolezza, dando ragione a chi sostiene che il tempo è la base fondamentale di ogni processo valutativo.
 
 
Pietro Bonazza – dottore commercialista
Giulia Bonazza – dottore commercialista