Non per avvento di una nuova ideologia, ma per esigenze di “banco che piange” e di sprechi non più realizzabili in concreto, il welfare-state, che tanta allegria e corruzione ha consentito agli amministratori centrali e locali, è in crisi in tutto il mondo. L’epoca in cui l’amministratore pubblico, invece che attento gestore di risorse collettive scarse, si sentiva dispensatore di felicità ideate da elitarie menti politiche, sembra al tramonto. Ma i vizi, soprattutto quelli mentali, sembrano duri a morire. Nel 1990 entrò in vigore la legge 142, che avrebbe dovuto costringere gli enti locali a trasformare le loro aziende di produzione di servizi in società di capitali. Questa innovazione aveva l’obiettivo di indirizzare le gestioni, da sempre confuse con quelle dell’ente locale, verso obiettivi di economicità, per cui erano necessarie due condizioni: la presenza del privato, legato alla logica del profitto e non a quella del consenso politico (per questo le chiamavano “privatizzazioni”) e la forma della società di capitali, atta a far convivere nella base societaria il capitale privato con quello pubblico. Dopo dieci anni si constatano tre categorie di aziende (in genere ex “municipalizzate”): a) quelle che si sono limitate ad assumere solo la forma della società di capitali, ma trattenendo le azioni in mani dell’ente pubblico in misura ultra maggioritaria; b) altre che hanno accolto i privati, in alcuni casi con quotazione della società al listino di borsa, ma sempre mantenendo la maggioranza assoluta; c) poche, che hanno realizzato gli obiettivi della legge 142, mantenendo per sé una quota minoritaria di capitale e lasciando ai privati la conduzione dell’azienda. In teoria, realizzata la trasformazione in società di capitali, le tre categorie avrebbero dovuto comportarsi nello stesso modo: conseguire possibilmente profitti e dotarsi di capitali adeguati ad affrontare le necessità di capitalizzazione richieste dalle nuove gestioni di pubblici servizi. Il concetto era ed è abbastanza semplice: i servizi pubblici impongono dotazioni di capitali rilevanti, che gli enti locali non dispongono; quindi, bisogna attingere al mercato, per il che è necessario gestire con profitto e assumere la forma della società per azioni. Il concetto base era ed è quello da me espresso in un convegno del 1994: « non si deve pensare alla società per azioni come si trattasse dell’azienda di erogazione del Comune, perché un conto è gestire un servizio di anagrafe (servizio istituzionale) ed altro conto è gestire una rete del gas (servizio facoltativo). Per entrambi il denominatore comune deve essere l’efficienza. Solo che nel primo caso (servizio istituzionale) si deve tradurre in un miglior servizio per il cittadino e un minor costo per il bilancio comunale e, quindi, per la collettività, mentre nel secondo (servizio facoltativo) in un miglior servizio per l’utente; ma, mentre tutti gli utenti sono cittadini, non tutti i cittadini sono utenti. Ne deriva che nel caso della società per azioni l’efficienza si deve accompagnare all’economicità, che deve tradursi in reddito. Infatti la società per azioni, anche se a capitale pubblico, “deve” porsi come fine l’utile da distribuire ai suoi soci, perché il capitale va remunerato, tanto più se è del Comune, cioè della collettività e seguendo le regole del mercato, sul quale nessuno fa regali a nessuno e questo è il bello del mercato, tanto demonizzato, perché si dimentica che come per lo Stato, vale la verità fondamentale: il mercato siamo noi e, comunque, anche quando funziona male, vi si deve applicare l’aforisma di Churchill sulla democrazia: “è l’istituzione peggiore, ma datemene una migliore se l’avete” ». Si tratta di considerazioni di tale ovvietà che non meriterebbero nemmeno un commento. Sennonché sono ancora molti i politici, soprattutto locali, che vorrebbero aziende pubbliche, società per azioni comprese, gestite come non profit, dimostrando che il vero problema è ancora lontano dalla sua corretta comprensione. Invece, ricordiamo: a) che dopo le cosiddette trasformazioni delle aziende pubbliche in società per azioni, ma il cui pacco azionario di maggioranza è rimasto saldamente in mano agli enti pubblici, privi di capitali e di volontà di fare investimenti, esse non sarebbero in grado di finanziare quelle minime dotazioni di capitale necessarie per assumere servizi pubblici in concorrenza con le grandi aziende private soprattutto straniere; anzi non sarebbero nemmeno in grado di fare un “piano di investimenti” (business plan), generalmente richiesto come condizione per partecipare a una gara di assegnazione di un pubblico servizio. Come sopravviveranno queste società per azioni a capitale pubblico? Un’aziendalista risponderebbe: con l’autofinanziamento. Purtroppo questo fenomeno, misterioso a chi si benda gli occhi, si può realizzare solo con il profit, perché il non profit vive di carità e la carità non serve per gli investimenti terreni! b) che la Corte di Cassazione, Sezione Unite Civili, nella sentenza 8 maggio 1995, n. 4989, ha dichiarato che l’azienda pubblica retta in forma di società per azioni è obbligata a perseguire il fine di lucro, istituzionale per la società di capitali secondo il nostro ordinamento giuridico. Lasciamo pur da parte certe ideologie non ancora digerite, nonostante una legislatura di sinistra ammantata di neoliberismo e constatiamo che il rischio peggiore è l’interferenza surrettizia. L’ente pubblico, titolare della maggioranza del capitale dell’azienda trasformata in società per azioni, quindi non privatizzata, continua a chiedere la botte piena e la moglie ubriaca: pretende prestazioni in via gratuita, nomina manager e consiglieri secondo valutazioni politiche, dislocandovi personaggi delusi dai risultati elettorali e incidendo negativamente sull’economicità delle gestioni, ma contraddittoriamente esige dividendi e non aumenta la dotazione di capitali, indispensabili per stare su un libero mercato, non più connotato da monopoli nazionali e locali e, come ciliegina sulla torta: anche illudendosi di fare scorpacciate di business in borsa, con il collocamento di una qualche pacchetto minoritario. Una specie di ossimoro del tipo: un re repubblicano! Ma, allora, era preferibile e meno equivoco lasciare le cose come un tempo. Ora molti si illudono che i nuovi equilibri politici sortiti dalle elezioni di maggio cambieranno tutto. Purtroppo il potere fa gola a chiunque! Di questo passo le ex municipalizzate sono in “fuori gioco” e, se quotate, sono destinate a un angolo della borsa. Siamo concreti e ricordiamoci del decalogo. Quinto: non uccidere… l’azienda pubblica locale. Pubblicato anche in “ItaliaOggi” del 22 giugno 2001, pag. 1