Maxi o midi-banche? Banche internazionali o nazionali? Banche tuttofare o specializzate? Banche polifunzionali o universali? Per capire il senso delle domande, che poi si possono ricondurre a un solo duale, bisogna ritornare agli anni Novanta, quando, avviata la liberalizzazione degli sportelli bancari e fatto il regalo della Legge 218/1990, si scatenò la corsa all’apertura di agenzie. Dopo un decennio osserviamo il fenomeno che irrispettosamente chiamo di “surroga bancaria” e che spiego così: nel condominio è quasi sparito il portinaio, ma in sua vece e occupandone garitta e funzioni c’è lo sportello bancario. L’Istituto di Vigilanza si illudeva di avviare un processo di concorrenza con effetti benefici sui costi dei servizi legati al credito e ricaduta sui consumatori. Non si era fatto i conti con la specialità del sistema bancario, a cui non sono pedissequamente applicabili le regole dell’economia di produzione e distribuzione. Soprattutto non si era considerato che i manager bancari italiani erano sì eccellenti nella tecnica delle operazioni, un po’ meno in strategie di mercato, a cui il protezionismo di Banca d’Italia non li aveva allenati. Come si valutava una banca in quegli anni? Un valore patrimoniale + un tot per sportello. Tanti sportelli, tanti miliardi di avviamento! Che i banchieri non fossero in grado di elaborare nemmeno concetti autonomi lo dimostra il fatto che hanno copiato dall’industria persino il gergo: se devi fare un’acquisizione, una fusione o una concentrazione con altra banca devi preparare un “piano industriale”. E dopo la scorpacciata di sportelli, costata uno sperpero enorme di risorse, è arrivata la mergermania, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti: servizi da supermercato dove trovi un po’ di tutto e di tutto un po’: dalla polizza assicurativa al biglietto del cinema, però a prezzo di tagli di personale, rottamazione di funzionari ancora validi, nessun vantaggio per il consumatore e, si sostiene, grande vantaggio per la dimensione del profitto a favore degli azionisti. Ma anche su questa affermazione avrei dubbi, perché nessuno si preoccupa di rispondere alla domanda se il profitto della concentrante è almeno pari alla somma di quelli che sarebbero stati i profitti delle singole concentrate autonomamente operanti. Contro la ridda di opinioni favorevoli al processo, non fummo in molti a dimostrare scetticismo. Molti gli economisti e gli aziendalisti favorevoli, anche perché si apriva un nuovo grande mercato di laute consulenze. In una pubblicazione del 1992, orientata a sostenere la non necessità della grande banca, né di quella tuttofare, ricordo di aver richiamato uno studio americano di poco anteriore, secondo il quale la dimensione ottimale di una banca poteva essere riferita a un totale di bilancio compreso tra venti e cinquanta mila miliardi di lire e si constatò che in quella fascia prosperavano numerose banche italiane. Sono passati quindici anni e di questi tempi possono essere molti, ma non vedo quali avvenimenti rivoluzionari siano intervenuti da allora a stravolgere l’infrastruttura dell’economia, se, come mi sembra realistico, non si attribuiscono cause determinanti il rovesciamento sul sistema bancario di molte funzioni di tesoreria erariale e Internet – almeno fino a oggi e pur considerando l’avvento della banca on-line. Se così è, allora, molte considerazioni di quegli anni in favore di una maggior conservazione del patrimonio di esperienza sul funzionamento del sistema bancario sembrano non infondate, a posteriori. La constatazione ha importanza per il revirement del Governatore della Banca d’Italia, la cui dichiarata ostilità a “ulteriori” fusioni bancarie, ripetuta da mesi in ogni occasione in pubblico e in privato, assume il significato di un mea culpa, se si considerano le motivazioni addotte di nessun vantaggio per la concorrenza, per il costo dei servizi e, quindi, per consumatori e piccole imprese. Poiché si tratta di argomentazioni di economia generale e bancaria, non si può nemmeno buttarla in politica, come da molti si tenta, sfruttando l’occasione di una campagna elettorale, particolarmente velenosa, perché coincide con la resa di tanti conti. Soprattutto non si può ignorare che il giudizio del Governatore è coerente con il Rapporto del G-10 diffuso a Londra il 25.1.2001. Il dottor Fazio ha dato prova di non lasciarsi intimidire dal potere politico. Può anche darsi che coltivi una qualche aspirazione a entrare in una stanza dei bottoni diversa da quella di Palazzo Koch, come hanno fatto altri uomini della banca centrale con meriti non maggiori dei suoi, ma non sarebbe da lui avviare una campagna personale usando l’argomento della mergermania. Mi sembra che il suo giudizio critico, da prendere a sua volta con spirito critico, meriti una qualche riflessione più approfondita e diretta, senza relegarlo a contrasti tra palazzi confinanti. Essere contrari a certi ministri del tesoro e delle finanze e a certi cosiddetti premier, non è un merito, perché è fin troppo facile, ma non si deve trascurare la constatazione, persino banale, che negli ultimi decenni l’unico organismo capace di fornire indicazioni di politica economica generale e dati credibili sullo stato dei nostri conti nazionali è stata la Banca d’Italia. I politici governanti, compresi gli attuali, non hanno saputo perseguire obiettivi di respiro, mentre sul quotidiano hanno espresso e continuano a esprimere beghe persino sull’ovvio. Ai banchieri, che fanno tanto uso del lessico dell’economia industriale, non si può non ricordare che, mentre continuano a coltivare idee di fusioni, negli Stati Uniti la gigantesca AT&T ha deciso nel novembre 2000 la scissione in quattro società quotate, mentre sulla “banca universale” tuttofare John Tiner, l’economista di Arthur Andersen, annuncia il momento dell’abbandono con il ritorno alla specializzazione. Ma, forse, non significa niente, soprattutto per gli scettici come noi che, su certe cose, siamo rimasti prudentemente fermi a prima della “rivoluzione”. Lo sapevamo! L’articolo è stato pubblicato anche su “ItaliaOggi” del 24-2-2001