La fine degli anni Ottanta maturò nel mondo occidentale, di qua e di là dall’Atlantico, l’idea che il mondo bancario dovesse essere liberalizzato e che, adottando la struttura della banca renana le aziende di credito potessero fare tutto, credito ordinario, medio e lungo termine, investimento, vendita di prodotti finanziari di ogni tipo, speculazioni sui cosiddetti prodotti “derivati”, promiscuità con assicurazioni e industrie. Molti flussi, che prima stavano nella situazione patrimoniale del bilancio, passarono “sotto la riga” o addirittura nelle note informative, quando non taciute. Gli anni Novanta realizzarono per legge quell’idea, rivelatasi poi imprudente.

All’origine di tutto c’è stata la perdita di ogni vincolo morale, trasformatosi da amoralità in immoralità. Guadagnare il più possibile e subito è stato lo slogan della nuova ideologia.

Ora, guadagnare il più possibile, può significare, in senso positivo, la massimizzazione del profitto, che è poi la traduzione in termini molto volgari della parabola dei talenti, ma non bisogna dimenticare che la massimizzazione va intesa “nel tempo”, che è sempre lungo, visto che l’impresa è un istituto con vocazione a durare nel tempo. Allora, il “subito” non si accorda con “il più possibile” e le contraddizioni, come le bugie, non reggono al tempo. Ma la nuova ideologia era talmente forte che contrastarla sarebbe stato inutile oltre pazzesco. Ricordo che nel 1992, dopo ricerche e riflessioni, ultimai un libro dal titolo “Banche & Mercati”, letto in bozza da alcuni esperti che mi diedero giudizi positivi, ma poi decisi di non pubblicarlo, forse con delusione di un banchiere oggi ancor più famoso, che si era offerto persino di scrivere la prefazione. Mi dissi: Bonazza sì, non Cassandra!

Ma perché guadagnare tanto e subito? La causa è da riferire all’inizio di una bolla speculativa. Ora, tutti sanno, ma molti fingono il contrario, che una bolla parte sull’onda di alti e insperati profitti. Il corso dei titoli incomincia a salire e ogni giorno è “toro” e con la bolla parte l’illusione che basti investire in borsa e dall’oggi al domani ci si può arricchire, impresa e privati. Perché fare investimenti nei processi produttivi tipici, se si può guadagnare molto di più con la finanza? Intanto le strutture produttive tipiche (il capitale fisso e l’organizzazione delle imprese) invecchiano e si fanno superare da quelle di paesi emergenti

La causa è la fame di profitti per sostenere i corsi di borsa, per distribuire dividendi e remunerare gli alti dirigenti, incentivati con remunerazioni integrative proporzionate all’utile di esercizio. So loro che impartiscono target ai capi agenzia, con piglio generalesco: tenere la posizione, conquistare la collina A, costi quel che costi. Sembrano tanti piccoli Hitler (führer) nella sala operativa di Berlino. E i capi agenzia scarpinano porta a porta come i venditori di spazzole di una volta. E tutto subito. Domani non esiste; importante è rastrellare e requisire oggi.

 

A questo stato di cose ci sarebbe un rimedio: il delisting per legge di tutti i titoli bancari e la trasformazione obbligatoria in società in accomandita per azioni, con gli accomandatari illimitatamente responsabili [1]. Sarebbero finite le follie degli strapagati manager, le scalate, le aggressioni, le “polpette avvelenate”, che hanno ridotto la più sensibile infrastruttura dell’economia in sovrastruttura. Non si può essere l’uno e l’altro. Si obietterà che le banche non devono godere minori libertà delle altre imprese. Va bene. Però, non lamentiamoci. Le banche devono crescere nel lungo periodo e l’ideologia della crescita per Merger & Aquisition lasciamola agli americani. Le fusioni tra debolezze non fanno una forza, ma una debolezza più larga. L’Europa un tempo possedeva meno danaro e più saggezza. Poi sono arrivati i cow-boy dal grilletto facile ed è stato Far West.

 

Ci si è dimenticato che certi valori morali, come la riservatezza, la discrezione, il rispetto della parola data (che vuol dire non rubacchiare di nascosto sulle valute delle operazioni), la critica costruttiva ai conti delle aziende, ecc. sono anche valori economici che possono essere remunerati. Se uno va in un ristorante famoso e viene accolto dal maître, potrà vantarsi di aver avuto accesso a un locale con tante forchette incrociate anche a costo di un conto salato, ma sarà stata una sua scelta libera e trasparente. Ora, le banche dovrebbero saper vendere la loro amicizia prima dei loro servizi, in modo da consentire alle aziende clienti di potersi vantare di lavorare con la banca A, piuttosto che non il bancone B. È sicuramente, questo, un ragionamento estremo, ma può rendere l’idea di una bancarietà perduta.

 

Oggi entrare in una banca è come andare all’ipermercato. Trovi di tutto un po’ e un po’ di tutto; devi arrangiarti a scegliere da te e prendere quel che passa il convento; se non trovi quel che cerchi e ti incaponisci, puoi cercare un commesso e, se lo trovi, chiedergli dov’è il prodotto. Al massimo ti indica lo scaffale; ma non chiedergli il funzionamento, perché o ti risponde che non lo sa o ti dà indicazioni approssimative, quando non errate. In quel mio citato libro abortito scrissi: verrà un tempo che le banche dovranno accontentarsi di un capannone, altro che palazzi nobili. Quel tempo è venuto: ci sono più sportelli bancari che condomini. Ma il servizio?

 

Un tempo, ma lo dico senza nostalgia, le banche erogavano il credito (impieghi) approvvigionandosi con i depositi dei clienti e dei correntisti (fonti). È evidente che il deposito è un debito per la banca, anche quando era vincolato e a tempo medio, ma è altrettanto evidente che non ha le stesse motivazioni economiche di un prestito obbligazionario, che esige un piano da trasmettere al mercato secondo regole di trasparenza.

Ora, il mondo delle aziende è cambiato e si può dire che le banche, che un tempo davano a prestito, ora prendono a prestito.



[1] È opportuno richiamare un passo significativo (pagg. 141-142) dei “Ruggenti anni Novanta” dell’economista americano Joseph E. Siglitz, Torino, 2004: «Quasi tutte le banche d’investimento erano state fondate come società in nome collettivo. Ora, una dopo l’altra, decidevano di trasformarsi in società per azioni. Goldman Sachs ha compiuto il grande passo il 4 maggio 1999. Costituendosi come società di capitali, Goldman Sachs veniva ammessa alle quotazioni di borsa di New York e partecipava al mercato al rialzo. Allo stesso tempo, proteggeva i suoi dirigenti contro il rischio del rovescio della medaglia. Ciascuno dei soci, fino a quel momento, era stato responsabile degli errori degli altri e delle perdite finanziarie che ne potevano conseguire. Questo faceva sì che fossero particolarmente motivati a controllarsi a vicenda, il che rassicurava gli investitori. Ma questo genere di vigilanza era sempre più difficoltoso per via delle crescenti dimensioni delle banche…»