Pur di aumentare le cattedre, ministri della pubblica istruzione e senati accademici hanno moltiplicato le suddivisioni dell’economia. Il compito più difficile degli studenti non è quello di capire qualcosa della scienza di Adamo Smith, ma di trovare un denominatore comune a tutte queste isole. Si farebbe più presto a gettare ponti in un arcipelago. Affari loro, si dirà, perché uno che pretende di fare l’università deve sapere almeno la regola algebrica del “minimo comun denominatore”, se no stia a casa sua. Mi sembra giusto. Però una suddivisione in due categorie è inevitabile: economia di guerra ed economia di pace, se non altro per dimostrare indirettamente la flessibilità della disciplina. Le definizioni sono intuitive. In sintesi l’economia di guerra è quella che prospera nei conflitti e prima di pane e formaggio produce bombe e cannoni. Quella di pace non sopporta la guerra, perché ritiene, giustamente, che gli affari migliori si fanno con il doux commerce, teoria cara agli Illuministi francesi del XVIII secolo e ricordata da Albert O. Hirschman nel famoso saggio “L’économie comme science morale et politique”. Un tempo la pace veniva agevolata dall’imparentamento delle case regnanti, oggi ci sono le multinazionali e la globalizzazione. Se una multinazionale del tabacco produce le “paglie” nel Maine, ma coltiva le foglie in Anatolia, farà pressioni perché non scoppi una guerra in Turchia. Persino il malaffare internazionale è pacifista. Vuoi che il cartello di Medellin sostenga la guerra agli Usa, che sono il mercato principale dell’industria dello sniffo? Ma è più difficile spiegare che un’economia di pace riesce a convivere con una di guerra sugli stessi territori. Ho sentito che l’embargo all’Iraq viene aggirato ogni giorno con traffici che passano da Israele e così fanno buoni affari musulmani ed ebrei. Ma in questi giorni mi è capitato di sapere di un altro significativo esempio: al di là delle roboanti parole di condanna, l’islamico Egitto ha importato da Israele molta tecnologia ed esperienza per le proprie aziende agricole sorte ai lati della desert road. I palestinesi finiranno in un altro bagno di sangue, i fondamentalisti ammazzeranno un po’ di gente con il terrorismo che farà vittime, il cui numero è già messo in conto come in una fredda statistica demografica, ma non risolverà alcun problema. Decisamente sembra venuto il momento in cui l’economia di guerra non pare più conveniente. Arafat lo sa, ma non può farci niente.