Trascurando i politici, che si autoreferenziano a tutto, purché costituisca centro di potere, è di comune accettazione, anche tra gli economisti meno invadenti, che lo “stato minimo” sia un obiettivo non concreto e che, quindi, al governo competa lo svolgimento della politica economica, nelle sue due species di natura strumentale: politica monetaria e politica fiscale. Per svolgere una politica economica attiva e propositiva servono entrambe, variamente collegate, secondo: le circostanze, il ciclo, il momento storico.
Con la sola politica fiscale si può fare, al massimo, una politica conservativa. I paesi aderenti all’UE hanno rinunciato alla prima, consorziandola a Francoforte e hanno mantenuto la seconda, realizzando l’impossibile obiettivo di un tavolino a due gambe. Si è trattato di una scelta politica e come tale non si discute. Semmai si potrebbero discutere i motivi, ammesso ne esistano e siano razionali e non politici, per cui le banche centrali dei consorziati continuiamo a tenerle in piedi – che poi è un “tenersele tra i piedi” – pur private della funzione qualificante e considerato che quella di vigilanza potrebbe essere esercitata da un qualsiasi altro organismo, meno costoso e impiccione. Soprattutto sono rimasti i “governatori”, che, non potendo più occuparsi di moneta, pontificano in ogni momento di politica fiscale, trinciando giudizi, memento, apocalissi, lanciati con la grancassa della stampa, ma nel contempo lavorando sott’acqua con il solito strumento della moral suasion: questa fusione “non s’ha da fare”, quella concentrazione non ci è gradita, la banca Alfa conduca a nozze la banca Beta, e via cantando. Che fine faccia la trasparenza e quali danni ne subisca la democrazia, non sembrano fatti di interesse nemmeno politico, forse perché, in realtà, la democrazia è ridotta a etichetta.
Ora, la politica economica si occupa di due aree in contrapposizione dialettica: la spesa pubblica e le entrate. La prima, che potremmo chiamare “mano sinistra”, è dominata: dalle correnti dei partiti, sempre pronte all’assalto alla diligenza; dal timore della maggioranza per le reazioni sindacali e della piazza; dalle concertazioni; dalla esigenza tutta ecumenica del volemmose bene; dalla visibilità televisiva; dal timore del giudizio di fori, curie e corti. La seconda (chiamiamola “mano destra”, nel senso di “destrezza”) è (o era?) più libera, perché, fatta eccezione per reazioni tipo tax-day, lontane e sbiadite nella memoria, il torchio è libero di spremere persino i graspi della vendemmia. Non abbiamo mai creduto ai programmi elettorali di qualsiasi compagine politica, ma vogliamo far credito agli ottimisti che l’attuale governo, nel rispetto della democrazia, anzi per ripristinarla, avrebbe rivoltato il paese come un “calzino”, compresi quelli che un rovesciamento già se l’erano proposto per via giudiziaria. Se accadrà, staremo a vedere come e quando. Intanto, nessuna vera riforma è stata fatta. Si obietterà che quella del diritto societario è già una realtà. Per il momento constatiamo che è stato più frastuono di legulei, il partito più forte e trasversale del nostro parlamento, che musica giuridica. Si dirà che per la prossima vendemmia sarà in parlamento lo schema di riforma fiscale, che l’attuale ministro dell’economia, con alfieriano “volli, sempre volli, fortissimamente volli”, sta portando a conclusione. Niente per la gloria personale, beninteso, né per dimostrare al suo predecessore quanto è migliore la scuola fiscale di Pavia, ma solo perché riformare il sistema fiscale è una esigenza impellente, questione di vita o di morte e da iniziare entro l’inizio del 2004! Fa niente, se dopo, come avvenne con la riforma del diritto societario, si fa slittare tutto di un anno o più: importanti sono i proclami e gli inviti a manifestare via Internet la propria plebiscitaria adesione, ma attenzione, come minaccia il protagonista della “Cene delle beffe”, “chi non beve con me, peste lo colga”. Purtroppo, per delusione del ministro, ci sono anche gli astemi e gli apoti. Noi non la beviamo, anche perché gli italiani non ne possono più di riforme fasulle, barattate per importanti, ma utili solo per nascondere quelle impellenti che non si fanno.
Qui sta il punto. Nella relazione accompagnatoria del ministro alla riforma si legge che i punti salienti (vedi per esempio la partecipation exemption) sono dettati dalla necessità di adeguamento della normativa a quella di altri paesi, con le cui imprese quelle italiane potrebbero trovarsi in condizioni di inferiorità. Trascuriamo anche di analizzare se questo sia un motivo valido e così urgente da infliggere agli imprenditori e ai loro professionisti, dopo mesi di “scudi”, “condoni”, riforma societaria, cartelle pazze, ganasce fiscali, beghe esattoriali, trasmissioni telematiche con piccione viaggiatore e via discorrendo, anche una riforma fiscale urgentissima e di diritto valtellinese. Però, anche passando su tutto questo – e non è sforzo da poco – resta il fatto sostanziale che se la riforma fiscale è dettata da esigenze esterne, ne deriva che la “mano destra” della politica fiscale è ridotta a lubrica “mano morta”.
Riassumendo: la politica monetaria la fanno a Francoforte; la politica fiscale della spesa (“mano sinistra”) la fanno i potentati di vario genere (lobby, sindacati, piazza, correnti politiche, ecc.), la politica economica del gettito (“mano destra”) è un adeguamento – dice sua eccellenza ministeriale – a norme di altri paesi. Che resta della politica economica nazionale? O meglio: che resta della sovranità nazionale? Ma è importante avere ancora una sovranità nazionale, quando siamo cittadini di un’Europa, sempre più affollata come un condominio di extracomunitari senza amministratore? Stiamo realizzando ciò che nemmeno il compianto filosofo Nozick osava pensare, non lo “stato minimo”, ma lo “stato nullo”.