Articolo pubblicato sulla rivista “Il Postale”, n. 7, luglio 2006

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Goethe, che oltre a essere il poeta che creò il Faust era anche una mente universale, definì la “Partita Doppia”: una delle più grandi invenzioni dell’umanità e poiché, al di là di atteggiamenti estetizzanti, era un galantuomo, gli si può credere.

Non si deve però confondere la “Partita Doppia” con la ragioneria, che in quest’epoca di diffuso dottorismo è sostituita, soprattutto nelle cittadelle universitarie, con varie nomenclature del tipo “economia d’azienda”, perdendo, anche nel nome, la sua genealogia, che è, per usare un termine goethiano, uno dei più grandi doni dell’Italia all’umanità. Ma dimenticare l’origine e la storia vuol dire ignorare l’essenza del fenomeno e non solo i crediti che questo nostro Paese, povero di orgoglio, ha maturato nei secoli verso il resto del mondo. Oggi si pensa alla ragioneria come a un reperto archeologico, complice il computer che ci sforna in continuazione pagine e tabulati di contabilità, che a ben vedere sono solo aspetti formali di quei libri di conto, principalmente il libro giornale e il mastro, che per secoli hanno costituito e tuttora costituiscono il riferimento conoscitivo per chi si dedica agli affari. Non solo, ma nei libri contabili si trova più storia di accadimenti e di vita che non in ponderosi e sterili trattati.

Se si vuol tracciare un sintetico itinerario storico, si può distinguere l’evoluzione della ragioneria in tre grandi fasi: quella che va dal XIII al XV secolo, dominata dai contabili genovesi, milanesi, toscani e rasonati veneziani e cioè fino al Luca Pacioli della Summa de aritmetica, geometria et proporzionalità (1494), la seconda che arriva fino al 1920; la terza che va dal grande Gino Zappa, autore del famoso testo Il reddito d’impresa fino ai nostri giorni. Se escludiamo gli anglosassoni, da cui reimportiamo concetti nostri, mal digeriti e ritenuti ghiotti, i campioni della ragioneria sono tutti italiani e qualche raro tedesco. La seconda fase è dominata dal Pacioli, ma l’opera è più computistica che ragionieristica e il cammino successivo ha elevato con fatica il computo alla dignità di ragioneria.

Per un secolo gli autori si sono limitati a parafrasare Pacioli o a esporre esemplificazioni derivate dalla sua opera, finché un bresciano di Rovato, Andrea Zambelli, avviò approfondimenti che sono una tappa importante nell’evoluzione della ragioneria.

Per usare una locuzione manzoniana: Andrea Zambelli, chi era costui? Non andiamo a chiederlo nelle scuole superiori per ragionieri e nemmeno nelle università; non chiediamolo ai bresciani, talmente indaffarati che muoiono non sapendo perché sono venuti nel mondo, ma nemmeno ai rovatesi, il che, più che dimenticanza o ignoranza, rasenta la colpa. Eppure Andrea Zambelli è una gloria locale, in una patria immemore, ritenuto non degno nemmeno della toponomastica di un vicolo, per lasciar posto a boulevard, cavalcavia e strade principali, intestate a Kennedy o a King, che i giovani non sanno chi siano e, se azzardano risposte, dicono che sono un attore di Hollywood o un cantante pop. Requiescant!

Il Concilio di Trento istituì le parrocchie e prescrisse ai parroci di tenere registri di battesimi e morti; ma di Andrea Zambelli non si trova traccia. Non parliamo delle anagrafi comunali, che vennero dopo il 1860. Eppure Andrea Zambelli non è una invenzione, perché ci ha lasciato un’opera di grande pregio: le MERCANTESCHE dichiarazioni della scrittura doppia, stampato a Brescia nel 1681 e di cui si riproduce in fondo a questa nota il frontespizio, un bell’esempio di arte tipografica dell’epoca e prova che Brescia era, dopo Venezia, una delle capitali delle stamperie italiane.

Che fosse cittadino rovatese lo si desume dai suoi scritti e all’inizio del libro l’autore riportò una petizione al “Tribunale dei pubblici deputati della città di Brescia”, con cui chiedeva l’autorizzazione ad aprire una scuola di ragioneria, che è plausibile, fosse in Rovato, considerando che lo Zambelli, dopo aver girovagato per vari paesi, era rientrato nel paese natio con la speranza di godere in pace la sua vecchiaia. Questo fatto dimostrerebbe anche che nella seconda metà del ‘600 Rovato era già una centro di attività commerciali e artigianali, tale da offrire allievi per l’apprendimento dell’arte di tener scritture a un insegnante che era sicuramente uno dei rasonati più esperti dell’epoca.

Poiché tra la stampa del libro e il rientro a Rovato corrono almeno due anni, è facile immaginare che Andrea Zambelli, passeggiando nella campagna e sulle dolci colline moreniche di Franciacorta, meditasse la conclusione della sua opera, sintesi di una vita di esperienze e di lavoro, con tanto desiderio di trasmettere agli altri il suo sapere ragionieristico. Questo è anche un esempio di generosità e apertura al sapere tuttora significativo in un mondo di gelosie e di piccoli uomini accentratori, tesi a conservare esperienze rubate agli altri, spacciate per proprie e che nemmeno si possono conservare con il pensionamento.

Non è questa la sede per discutere nemmeno i passi salienti dell’opera zambelliana, che è introvabile persino nelle biblioteche universitarie e nella Queriniana di Brescia, perché l’unica copia è chiusa, almeno lo era fino a poco tempo fa, in uno scatolone in cantina in attesa (da tanti anni) di repertoriazione. Questa, almeno è la motivazione ufficiale per i comuni utenti. Per raccomandati e amici non so. Ma attenzione: i topi non sanno leggere, però sono ansiosi di sapere e non si deve escludere che si rosicchino le Mercantesche, che è un modo per apprendere. Però, Andrea Zambelli merita ben altro che l’oblio.

Io ho insegnato la ragioneria per anni e ho sempre cercato, pur nell’angustia del tempo, di richiamare la storia di una disciplina che oggi, con lo sviluppo esponenziale degli affari, è diventata di primaria importanza, perché l’azione quotidiana dell’imprenditore senza disponibilità di dati consuntivi è come una navigazione in mare aperto su un guscio di noce.

Conoscere, oltre che un piacere intellettuale, è una condizione dell’azione, ma per conoscere bisogna scrivere e scrivere vuol dire registrare, correttamente e con sistema.

Rendiamo onore, almeno noi bresciani, a chi ha contribuito con tanta passione e onestà intellettuale allo sviluppo della ragioneria.

 

Pietro Bonazza