Politica e burocrazia a braccetto: da Tacito ai giorni nostri

 

Gli italiani onesti – e fortunatamente sono la maggioranza – sanno anche avere memoria e, quando vengono a conoscenza di scandali come l’Expo di Milano e il Mose di Venezia, per non parlare di banche senesi e genovesi a corto di ossigeno per ruberie perpetrate negli anni, hanno anche quel senso di realismo, che li porta a non stupirsi. I soprusi, le angherie delle caste burocratica e politica, le concussioni e altro non sono solo di oggi, ma risalenti nei secoli e hanno inciso sul carattere dell’italiano, che non è menefreghista, ma scettico contro ogni forma di potere e di regime di governo.

Il giudice Nordio, esperto in materia, ha espresso in questi giorni il giudizio che, soprattutto nel settore dei lavori pubblici, per superare la montagna di leggi, è inevitabile che l’imprenditore, invece di oliare la macchina della propria impresa che dovrebbe eseguirli, deve oliare quelle della politica e della burocrazia, che strumentalizzano le troppe leggi a proprio personale vantaggio. Non rubano più per il partito – il che non sarebbe comunque un’attenuante – ma per la propria insaziabile tasca. La diagnosi impietosa di Nordio ha trovato molti consensi – tra cui il mio incondizionato – ma, merita un approfondimento di carattere storico-culturale per ben comprendere il rapporto causa-effetto o, il che è lo stesso: chi è madre e chi è figlia, o, in altri termini provocatori, se è nato prima l’uovo o la gallina.

Il problema non è di oggi, sol che si pensi che Tacito, arguto storico latino del primo secolo – e son passati 2mila anni -, scrive negli Annales (Libro III, 27) il famoso giudizio finale: «…et corruptissima re publica plurimae leges», non “plurimae leges corruptissima re publica”. Sembrerebbe corretto arguire che per Tacito la “corruptissima re publica” è la causa delle “plurimae leges”, tant’è che, prima di questa amara conclusione, l’autore ha ricordato, nella parte precedente del paragrafo 27, dal re Tarquinio e passando per i Gracchi, i Saturnini, i Druso, con la parentesi del dittatore Lucio Silla, che pose un freno alle leggi, ma per riprendere con Lepido la prassi delle “plurimae leges”. Sembra un facile rapporto causa effetto che siano le molte leggi a rendere “corruptissima” la “re pubblica”. Ma, a ben intendere, Tacito ricorda gli uomini disonesti dominanti nella “re pubblica” che procurano le “plurimae leges”. Se non fossero loro la causa, cioè la politica, lo storico romano non avrebbe sentito il bisogno di citarli espressamente, per cui si può dire che non le troppe leggi creano la corruzione, ma la corruzione crea l’eccesso di norme.

È pur vero che Nordio non cita Tacito, ma la sua tesi è in linea con l’interpretazione diffusa, da me non condivisa, che attribuisce al giudizio dell’autore latino l’esistenza di troppe leggi come causa della corruzione, il che porterebbe a ritenere che basterebbe eliminare o semplificare le “plurimae leges” per tagliare le ali ai disonesti e impedire il verificarsi di casi come Expo e Mose e altri vasi di Pandora. Sicuramente la conclusione di Nordio, Tacito a parte, è ineccepibile, però, è necessaria, ma non sufficiente.

Purtroppo, ritengo necessiti anche altro e forse sarebbe d’accordo anche Tacito, a costo di invertire lui stesso la sua conclusione letterale, affermando esplicitamente quella sostanziale da me ritenuta.

Comunque non accadrà nulla per il risanamento morale, come non è accaduto nulla vent’anni dopo Tangentopoli, che, nonostante il chiassoso esempio, non ha frenato il malcostume, come a dire che i processi non insegnano, ma è ciò che viene prima che bisogna correggere, perché l’effetto non sia devastante sulle tasche dei cittadini, costretti a subire lo schiacciamento del pressorio fiscale per coprire la spesa pubblica incrementata dalla traslazione dei costi della corruzione, ormai compagna di ogni appalto pubblico.

Per questo gli italiani onesti sono scettici, perché sanno che la saggezza del Gattopardo è profondamente vera: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, come vero è l’amaro giudizio di Giacomo Leopardi: «Gl’italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze». Già! E in riferimento alle classi politica e burocratica: l’usanza di rubare.