Il Ministro Tremonti vive un periodo di quotidiane arrabbiature e ne ha motivo. Da un lato la politica è ingenerosa. A meno di un furbesco gioco delle parti, lo stesso premier non pare entusiasta delle continue prove di durezza del suo Super-cancelliere dello scacchiere; lo vorrebbe più morbido e flessibile, pur sapendo che è impossibile. Forse il premier vorrebbe essere lui lo “scacchiere”, come lo è per gli Esteri e lo “Sviluppo economico”. Sembra la gara degli “ego”. Si spiega che la politica spinga sempre più il Tremonti verso la Lega, che non si sa quanto lo ami, ma lo usa e Tremonti non può non saperlo, anche perché quel partito gli va stretto. D’altro lato i conti pubblici gli danno ragione e lo rendono praticamente inattaccabile. Infatti, se nonostante il rigore dei Brunetta, Gelmini, Sacconi ecc., la spesa pubblica non demorde significa che la manovra, seppur con spigoli, difesa a oltranza dal Super-ministro, deve per forza passare, pena ritrovarci nei panni della Grecia. Poiché è sterile continuare a piangere sul latte versato della crisi mondiale  resta la crudezza dei dati più recenti.

Nella finanza pubblica, che poi vuol dire la politica economica: il debito pubblico, l’andamento delle entrate e il Pil sono tre variabili strategiche, che, raggiunti certi limiti, diventano ingovernabili. La prima registra a maggio 1827,1 miliardi di euro, in aumento rispetto ai mesi precedenti; le entrate fiscali calano, seppur con riduzione frenata, il Pil cresce meno che in altri paesi europei. Davanti a questo scenario il Tremonti sembra consolarsi affermando: «Non farei cambio con Paesi che hanno un debito pubblico meno elevato ma quello privato quattro volte il nostro». Ma questo non è un ragionamento valido, perché è un paragone solo qualitativo e privo di veri parametri. Più tranquillizzante, se fosse vero, è il dato dell’Istat: il sommerso è pari al 17% del Pil. In mezzo a tante considerazioni più o meno consolatorie un parametro resta strategico, soprattutto in prospettiva: il rapporto Debito pubblico/Pil, che per gli economisti è misura dell’onere sull’economia rispetto alla dinamica del Pil, parametro sotto attenzione della Bce e della Banca d’Italia. Se il numeratore cresce meno velocemente del Pil si può sperare in un controllo seppur difficile, se non l’unica strada è comprimere le spese pubbliche. Sembra quasi un rapporto: Tremonti fratto Berlusconi. Allo stato attuale il denominatore non si può accelerare, ma il numeratore si può sgonfiare.

La manovra non è un capolavoro e in tutto si può far di meglio. Ma gli spazi sono pochi e, nonostante il grido di dolore dei capi della amministrazioni territoriali (Regioni, Provincie, Comuni ed Enti inutili), la manovra deve passare per evitare il peggio, se non vogliamo caricare sulle spalle dei nostri figli pesi ancora più insostenibili di quelli irreversibili creati in tanti anni di finanza allegra. Si è sempre sostenuto che gli stati non falliscono, però fallisce il futuro. È la fine anche della magra consolazione di Tremonti sul vantaggio tutto italiano dello scarso debito privato rispetto all’esondante pubblico. Proviamo, invece, a sommarli con tutte le cautele metodologiche del caso e poi potremo ragionare più correttamente. Quanto al sommerso, se è condannabile, è anche certo che, se emergesse, una fetta consistente se la prenderebbe lo stato con l’insostenibile pressione fiscale. Ma come la spenderebbe? Chiediamolo al Please effect, secondo cui un aumento della pressione fiscale (tax-push) induce il governo e il parlamento ad accrescere le spese correnti con effetti almeno indiretti sull’inflazione, soprattutto se le spese dilatano un debito pubblico già imponente. Quindi, bando alle chiacchiere e ricordiamoci di Tito Livio: «Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur» (mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata).

A prescindere da tante bizzarre opinioni, resta valida la tattica di quel comandante di reggimento: prima conquistiamo la collina, poi conteremo i morti.