Anche i più acuti studiosi di Dante ammettono di non avere certezze su come e quando sia nata nel sommo poeta l’idea di scrivere l’immortale Commedia. Il dato mancante può autorizzare ipotesi diverse da quelle care agli studiosi.

Penso, in tutta libertà e facendomi beffe degli specialisti, che non Dante scrisse la Commedia, ma che la Commedia scrisse Dante o meglio che siano nati insieme, perché un’opera così grandiosa – e prescindo dalla lingua e dalla scansione del verso endecasillabo – non è una lampada che si accende improvvisamente e nemmeno è un’idea embrionale. Nella Commedia non c’è solo il poeta, il che è naturale e banale, ma c’è l’uomo in tutta la sua umanità, ricca di altezze vertiginose, direi divine, ma anche pregna di tutto ciò che si è espresso: nell’amore, nella politica, nella delusione, nella violenza subita alla dignità e al proprio orgoglio, che non hanno eguali nella storia, perché capace di catarsi assoluta, che si fa cristiana redenzione.

L’impianto architettonico, direi cosmologico, è assolutamente geniale. La poesia è inimitabile. La cultura profusa inaudita, sostenuta da una memoria così straordinariamente prodigiosa da alimentare aneddoti già raccontati nella Firenze del suo tempo come ricorda Giovanni Boccaccio nella biografia “Vita di Dante”. Ma tutta questa grandezza fa ombra al fenomeno Dante, anche se è giusto che un’opera, una volta compiuta, vada da sola per le vie del mondo senza necessità di cordoni ombelicali.

La Commedia era dentro Dante già alla sua venuta al mondo o come si direbbe oggi, con eccessiva enfasi biologica, nel suo DNA. Aspettava solo il momento di prendere forma e, quindi, per rispondere alla domanda dell’idea originaria bisogna porsi fuori dalla  Commedia o, meglio, non solo dentro.

La Commedia ha costituito da sempre una sfida, che mette alla prova cervelli dotati alla vana ricerca di toccare il fondo di un pozzo, che è senza fine. Ma questo può lasciare in secondo piano Dante come uomo o meglio: come fenomeno umano. Nell’opera è scritto tutto: il tempo passato, il presente e il futuro. Astrofisici, abituati a non fare sconti a nessuno, hanno dovuto riconoscere che in nuce è già preannunciata la teoria della relatività. Scrive Jorge-Luis Borges nel saggio “Il nobile castello del quarto canto“, il primo dei “Nove saggi danteschi“: «raggiunte le pagine finali del Paradiso, la Commedia può essere molte cose, forse tutte le cose».

Allora si capisce che la Commedia viene sì per ultima, al punto che per scriverla Dante abbandonò incompiuto il Convivio, ma non trova un’anticipazione nella Vita nuova né una giustificazione politica nel De monarchia né dimostrazione della scelta della lingua nel De vulgari eloquentia. Queste sono sovrastrutture o bisogno di autospiegazione su fenomeni secondari. La Commedia è nata grande ed era già grande anche quando Dante era piccolo.

Non trovo per me spiegazioni più convincenti. Dante va amato, solo dopo: capito, perché ha portato una croce pesante come sempre accade agli autori di grandi opere. Mi convincono le affermazioni di grandi poeti e filosofi come il Jorge-Luis Borges dei “Nove saggi danteschi” e l’Hans Georg Gadamer dell’intervista di Anacleto Verrecchia in Incontri viennesi [Torino, 2005, pagg. 105-106], che leggevano la Commedia in originale prima ancora di imparare l’italiano. Cercavano lo spirito di Dante, che è nelle parole, ma va oltre, perché è il respiro delle parole.