(Nota Bene: questo aforisma deve essere letto in collegamento con quello pubblicato il 5.12.2000 con titolo Beata o maledetta ignoranza di sé)


Dostoevskij scrive nei Demoni (pag. 221): «Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non ce ne sarà bisogno». Che intende l’autore?


1 Un quando, cioè un tempo, in cui non ci sarà più tempo. Ma questa è una contraddizione! A meno di intendere che nel momento stesso in cui la felicità è raggiunta, il tempo muoia.

2 Un rapporto di causa-effetto: la felicità (causa) uccide (effetto) il tempo. Cioè la felicità per esistere deve essere senza tempo. Ma una felicità detemporalizzata che felicità è?

A meno che non sia una libertà del traduttore o una mancanza di flessibilità della lingua russa, Dostoevskij confonde felicità con “beatitudine”. Questa sì che è fuori dal tempo, perché è anche fuori da questo mondo, diversamente dalla felicità, che già nella sua etimologia indica una realtà umana e temporale. Felicità viene dall’accadico e significa mammella, che dà il latte. E c’è qualcosa di più temporale? Ma Dostoevskij, esperto di case da gioco e meno di etimologia, pare non lo sapesse.

Quindi, la felicità per esistere ha bisogno del tempo, perché è nel tempo che si manifesta e spiega. Basta pensare allo status di chi è felice: mancanza di dolore, del male e godimento del fisico e dello spirito.

Fedor Dostoevskij è un inquietante provocatore, che avvince il lettore e lo costringe a riflessioni in cui è posto in gioco il senso profondo della vita, della morte, della fede, dei valori e dei disvalori che spingono l’uomo al compimento di azioni non certo immaginabili in uno stato di quiete borghese. I temi sono i soliti che assillano l’uomo da sempre, ma Dostoevskij li vede e costringe a vederli attraverso una lente multifocale, che sovrappone arte e filosofia metafisica. Solo con questa mediazione della propria anima, lo scrittore riesce a trasformare una notizia di cronaca in un grande romanzo. “I demoni” ne sono un esempio e noi suoi lettori siamo come i visitatori di una miniera, che si dipana in una ragnatela di cunicoli.

Per esempio: a pag. 221 dell’edizione Einaudi, Vsévolodovič dice all’aspirante suicida Kirillov: «Nell’Apocalisse un angelo giura che non ci sarà più il tempo» e Kirillov risponde: «Lo so. Quel che è detto là è verissimo. Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più, perché non ce ne sarà bisogno».

E dove lo ficcheranno?

– Non lo ficcheranno in nessun posto. Il tempo non è un oggetto, ma un’idea. Si estinguerà nella mente.

In questo colloquio c’è tutto Kant, ma Dostoevskij ci mette di suo il collegamento del tempo che diventa inutile quando è raggiunta la felicità, in cui, però, pare riemergere il concetto che Aristotele esprime nell’Etica Nicomachea, catechismo di morale antica, in cui la felicità è conseguibile a condizione dell’aspirazione e della realizzazione della virtù che persegue il bene.

Se ragioniamo sul filo rigoroso della logica, notiamo però in Dostoevskij un salto: la felicità (intesa in senso individuale) per rendere inutile il tempo deve essere raggiunta contemporaneamente alla fine della vita, poiché, prima ed essendo l’uomo in continuo pericolo di ricaduta, il tempo sarà ancora necessario, se non altro per il mantenimento della felicità, che non è uno status conseguito una volta per tutte, se mai viene raggiunto almeno per un attimo non illusorio.

Ma c’è una precisazione preliminare, che Dostoevskij non compie e cioè che cosa dice esattamente l’Angelo dell’Apocalisse: «Oti cronos ovketi estai» (7,10,6). Ora la parola cronos è correttamente “il tempo” e non il kairos, pure usato nell’Apocalisse (22,10), ma più nel senso di tempo dell’attesa che non il suo semplice scorrimento. A parte il fatto che il greco antico è lingua elastica, talché vi è anche chi traduce cronos con “indugio”, si può comunque considerare che Dostoevskij meglio avrebbe potuto richiamare il kairos, quindi altra parte dell’Apocalisse, per il discorso di Kirillov, se si vuole che il tempo reso inutile dalla felicità sia attesa, come attesa è la felicità stessa.

Ma, se Kant colloca il tempo in una dimensione trascendentale e non metafisica, Aristotele, da quel bravo predicatore che è, discetta di felicità, che sembra debba essere il fine e la condizione dell’uomo. Andiamo a predicarlo a un povero disoccupato, a un diseredato, a un disgraziato, che non hanno una mensa di Alessandro a cui sfamarsi!

Scorrendo il testo dei Demoni (pag. 222) c’è un’altra celebre affermazione nel dialogo di Kirillov: «Sono cattivi…perché non sanno di essere buoni. Quando lo sapranno, non violenteranno più una bambina. Bisogna che sappiano che sono buoni, e tutti diventeranno subito buoni, dal primo all’ultimo».

Sembra che la cattiveria non sia una realtà di questo mondo, ma una conseguenza della non coscienza della bontà! Ma, poiché il male è una realtà oggettiva e non un falso convincimento, resta indefinito il male. È pur vero che la coppia antitetica bene-male non può trovare spiegazione adeguata nemmeno nella dialettica, però resta il fatto che una non corretta apprensione del bene in una coscienza priva di riscontri oggettivi può portare alla convinzione che basti credere di fare il bene e bene sarà.

I pessimisti non sono imbecilli. Se poi mettiamo in testa al loro esercito un filosofo come Schopenhauer, c’è da credere che, se di imbecillità deve trattarsi, essa sia più una caratteristica degli ottimisti! Ma anche Dostoevskij non era un ottimista! La sua opera è tutto fuorché l’affermazione di Kirillov e basti pensare all’Idiota.

Pietro Bonazza