Opinioni su due epistole evangeliche
Quando si affronta la lettura di un testo del Nuovo Testamento tradotto in italiano o in altre lingue moderne, in particolare i Vangeli e gli Atti degli Apostoli, non si possono trascurare le premesse filologiche ed epistemologiche, perché sorgono domande preliminari, a cui non sempre è possibile dare risposte certe, talvolta nemmeno incerte. Questo avvertimento, che non presuppone alcun dubbio sull’esistenza storica dei testi, riguarda qualsiasi documento pervenutoci non in scritto autografo, per esempio tutti gli scritti di Dante Alighieri, ma a nessuno verrebbe mai in mente di dubitare della esistenza della Divina Commedia o di un poema omerico solo perché manca un’attestazione notarile o la firma dell’autore. Così per i testi sacri, per i quali, semmai vale un’attenzione particolare relativa alla traduzione dei testi. Le domande che si pongono gli storici dei documenti, sono preminentemente:
a) tempo della loro composizione;
b) lingua originale;
c) identità dell’autore;
d) coerenza con altri testi contemporanei o posteriori;
e) eccetera.
Limitiamoci alle prime quattro domande applicate all’Epistola di San Paolo, I Corinzi XIII,12 e all’Epistola 1 di San Giovanni, 3-2, da porre a confronto.
1) Scrive San Paolo nella citata lettera: «Videmus nunc per speculum in aenigmate: tunc autem facie ad faciem. Nunc cognosco ex parte; tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum», traducibile in italiano: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» e in inglese «For now we see in a mirror dimly, but then face to face; now I know in part, but then I will know fully just as I also have been fully known», in cui si nota in primo luogo la parola speculum, che, potendo avere un significato allegorico, rinvierebbe indirettamente a Dio e personalmente allo scrivente (sum); in secondo luogo, il tempo della conoscenza vera, l’avverbio tunc (allora, in futuro) rispetto a nunc (ora, adesso): Non è certo un esempio di chiarezza, ma può dipendere dalle espressioni linguistiche poco precise e/o dalle traduzioni più o meno felici.
a) In quale epoca fu scritta l’epistola? Gli specialisti propendono intorno al 55-60 d.C.
b) La lingua originale. Paolo era un ebreo colto, che probabilmente conosceva anche il latino, lingua dei dominatori romani, e forse meglio il greco essendo ellenizzato. È plausibile che le lettere siano state pensate in ebraico (la lingua madre dell’estensore), ma scritte in greco, perché lo esigeva la loro comprensione in lingua greca parlata dai destinatari delle lettere. Noi che le leggiamo in italiano, ma vale anche per gli altri europei, dobbiamo ricordarci che sono tradotte dal greco in latino e dal latino in italiano. Domanda: le doppie e triple traduzioni a catena sono sempre corrette rispetto all’espressione originale? Questo è appunto il compito della filologia.
c) Identità dell’autore. San Paolo non aveva mai conosciuto Gesù Cristo e la sua parola, ma bisognerebbe dire il pensiero del Salvatore, può averlo appreso, oltre che dall’ispirazione divina, da Gamaliele e da Barnaba, ma nessuno dei due conobbe Gesù di persona, essendosi convertiti dopo la morte del Maestro. Ciò spiega la riserva di alcuni studiosi su certe autonomie del pensiero paolino rispetto alla parola di Cristo, quale è trasmessa nei Vangeli sinottici.
d) La famosa frase riportata dalla lettera ai Corinzi ci rinvia alla prima lettera giovannea.
2) Scrive Giovanni Evangelista nella sua prima lettera § 3: 1-2,: «Carissimi, nunc filii Dei sumus, et nondum manifestatum est quid erimus; scimus quoniam, cum ipse apparuerit, similes ei erimus, quoniam videbimus eum, sicuti est», traducibile in italiano con «Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è» e traducibile in inglese con «Beloved, now we are children of God, and it is not yet revealed what we will be. But we know that, when he is revealed, we will be like him; for we will see him just as he is». Riprendiamo le quattro domande:
a) la lettera di Giovanni è databile intorno al 90-100 d.C., cioè mezzo secolo dopo la prima lettera ai Corinzi di Paolo;
b) è plausibile che sia stata scritta direttamente in greco, come il Vangelo e l’Apocalisse di Giovanni, perché diretta alle prime comunità cristiane dell’Asia Minore ellenizzate;
c) Giovanni Evangelista era stato testimone diretto della vita di Gesù Cristo, soprattutto il primo a constatare il Sepolcro vuoto dopo la Resurrezione; anche l’apostolo prediletto e probabilmente il più giovane di tutti, compreso lo stesso Maestro, e sicuramente il più longevo;
d) è impossibile che Paolo conoscesse la prima lettera di Giovanni, per lo scarto di tempo, mentre è possibile, ma solo in astratto ed improbabile, che Giovanni potesse aver conosciuto la lettera ai Corinzi di Paolo.
3) La precedente lettera d. non è determinante ma sembrano evidenti due constatazioni:
- la lettera di Giovanni, rispetto a quella di Paolo, è più diretta: è riferita a Gesù e non al Dio indeterminato ma Chi si sarà manifestato, cioè il Cristo glorioso e giudice;
- Giovanni non usa la metafora dello speculum, anche se sul piano temporale rinvia al futuro (quoniam videbimus), come San Paolo (tunc autem conoscam).
Un’ultima considerazione personale sulla lettera di San Paolo. Quel grande affabulatore della letteratura mondiale che è stato Jorge Luis Borges, nella sua “Nuova antologia personale [Nueva antologia personal] ci ha ricordato le numerose traduzioni della lettera paolina proposte in tempi diversi dal poeta francese – segno di oggettive difficoltà interpretative del testo – e non è certo il caso di fare ulteriori esercitazioni; però la constatazione che “ora noi vediamo una realtà enigmatica attraverso la deformazione di uno specchio” è in effetti una provocazione e spinge all’ipotesi di un paradosso: se la realtà è un enigma, significa che se la vedessi facie ad faciem mi apparirebbe deformata; invece, vedendola attraverso uno specchio deformante, potrebbe accadere che l’immagine restituita sia quella reale, come quando l’immagine di un uomo normale sarebbe deformata in “magrezza” in una visione diretta, per esempio per un effetto ottico o un difetto dell’organo della vista, mentre uno specchio “ingrassante” finirebbe per restituirmi un’immagine corretta. Però, questo è mero divertissement della logica, come per la doppia negazione che finisce per affermare. Ma San Paolo non faceva l’ottico e nemmeno il logico: era santo di professione, con una accentuata propensione a turbarci, forse per bilanciare la sua predicazione della speranza.
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