Divagazioni sul prima e sul dopo

 Non esiste accadimento senza un mutamento della situazione che lo precede, quindi, quando dico che il tempo è misurato dagli accadimenti e non dall’orologio, in realtà sto affermando che il tempo è misurato dai mutamenti. Niente accade se non per mutare. La storia dell’universo prima e dopo il Big Bang altro non è che una sequenza di mutamenti. Senza mutamenti l’universo correrebbe verso un’implosione e la vita sulla Terra si arresterebbe. L’uomo invecchia e muore per effetto di un mutamento personale (per ultimo: passaggio dalla vita alla morte) con lo stesso meccanismo biologico che regola la morte e la rigenerazione delle cellule. Il vecchio muore per far spazio al giovane, che segnerà un mutamento rispetto al predecessore. È la ripetitiva legge del divenire. È Eraclito con il suo panta rhei, che dimostra la fondatezza della sua intuizione. Ma l’uomo – e così tutti gli altri fenomeni – mutando si complica e si espone all’entropia, perché i fenomeni diventano sempre più complessi attraverso un processo di accumulazione. La stessa scienza è un continuo accrescimento di conoscenze, che allungano la catena del sapere. Si tratta di una catena, i cui anelli non sono sempre in linea, ma crescono disordinati soprattutto nella fase pionieristica; sicché si rende necessario ogni poco un lavoro di sistematizzazione e di riordino attraverso la formazione di nuovi paradigmi di conoscenza (vedi Thomas Khun), che sostituiscono paradigmi precedenti pur senza cancellarli, per cui si assiste a una continua evoluzione della cosiddetta verità scientifica, che spesso si manifesta fallace e costringe al suo abbandono e al ripescaggio di ciò che si riteneva superato. Gli esempi si sprecano: si pensi alla teoria eliocentrica già intuita in modo embrionale da Filolao di Crotone, ripresa da Aristarco di Samo (III secolo a.C.), messa da canto dalla teoria geocentrica avallata da Tolomeo coerente con la Bibbia o con una sua interpretazione, confutata da Copernico, che ripescò l’eliocentrismo su base scientifica e non ipotetica [vedi: Riccardo Giacconi, L’universo senza Motore, in “Il Sole-24 ORE”, 24.6.2007, scrive: «Archimede, suo contemporaneo, lo cita dicendo:  L’ipotesi di Aristarco è che il sole e le stelle non si muovano e che la terra ruota intorno al sole su un orbita circolare con il sole al centro per l’ipotesi eliocentrica, circa milleottocento anni dopo”. È interessante notare che Copernico conosceva questa citazione di Archimede, anche se si prese l’intero merito»].

Si può, così, intuire che la seconda legge della termodinamica è in grado di spiegare ben oltre i confini in cui l’hanno racchiusa i fisici della meccanica razionale come Clausius, secondo cui in nessun motore è possibile che il calore si traduca totalmente in lavoro, esistendo una certa dispersione di energia. L’energia dispersa non va “persa”, ma si trasforma, come afferma la I legge della termodinamica e crea entropia e complessità, che, però, non è materia errante, ma convogliata, talché l’entropia da noi creduta si trasforma in realtà in un ordine superiore, che l’uomo non riesce a tradurre in fenomeno. E perché non pensare, in modo molto fantastico e non certo scientifico, che l’allontanamento delle galassie sia l’effetto di energia liberata e tradotta in una spinta centrifuga? La cessazione del fenomeno termodinamico, che sopravverrà dopo il Big Crunch, segnerà anche la fine dell’universo e tutto diverrà statico, fermo, irremovibile (cioè senza movimento) e quindi senza tempo per l’eternità. Il Paradiso potrebbe anche essere quello poeticamente immaginato da Dante con preminenza di uno status contemplativo, privo di vita e di morte, di accadimenti e mutamenti in uno stato immateriale in cui Dio è il centro. Ma se il Big Crunch cancellerà l’universo, il Dio dei cristiani – misericordioso, sollecito, soccorritore dell’uomo nei momenti del bisogno, ma anche rispettoso del suo libero arbitrio, che aveva rivolto il suo sguardo pietoso verso l’uomo – non avrà più bisogno, se mai n’ebbe, di esprimersi in tal senso. Usando termini inappropriati, si potrebbe dire che Dio non avrà più nulla da fare, se non il pieno e unico svolgimento del “pensiero di pensiero”, come sosteneva Aristotele. Si potrebbe pensare che a partire da quel momento il Dio di Spinoza coinciderà con il Dio dei cristiani e il buon Spinoza cesserà di essere ateo, se mai lo è stato. Anche Spinoza riceverà la sua sofferta giustizia, o l’avrà già ricevuta, se la misericordia di Dio l’avesse già accolto nel suo eterno gaudio. D’altra parte nessuno può negare che la giustizia di Dio non è la giustizia degli uomini.

 Il rapporto causale è, pertanto, accadimento=mutamento e, quindi, il tempo come scorrere di accadimenti e successione di mutamenti. Questo asse porta, di conseguenza, a considerare la teoria del finalismo, che tormenta l’uomo dalla nascita della filosofia e forse anche prima fino ai nostri giorni, interessando particolarmente filosofi e scienziati a favore e contro, in una alternanza di posizioni, che sembra confermare, sia l’instabilità delle loro interpretazioni sia l’osservazione sopra espressa a proposito dell’andamento di una teoria nella successione del tempo con le proposte iniziali, le successive negazioni e il ritorno, a dimostrazione dell’instabilità della scienza, che non può spiegare tutto, contro l’ambizione talvolta arrogante di chi si affida alla ragione ipostatizzandola anziché impiegandola con saggezza. La ragione deve essere un mezzo e non un fine, a meno di ritornare alle atrocità della Rivoluzione francese.

La verità, che pare difficile da confutare, è nell’esistenza di una finalità che riguarda l’universo e non l’uomo, che è solo una microbica particella, e si concluderà in quell’atto finale, in cui la vita, non nel senso in cui la intendiamo in termini antropologici o biologici, ma di esistenza, cesserà di alimentare l’universo. Ciò che noi non sappiamo, né mai sapremo, da uomini, come si ponga in atto o sia stata posta in atto in un dato momento, prima del Big Bang, la finalità che regge l’universo. Questa ipotesi non intacca la versione filosofica della seconda legge della termodinamica, perché dispersione, entropia e complessità sono parte di questa finalità e il cambiamento è nel continuo susseguirsi di stati di entropia. Noi siamo apparentemente figli del disordine e la finalità riconduce il disordine all’ordine perché in essa incorporato. Il problema riguarda semmai la libertà in generale e quella dell’uomo in particolare. Il finalismo, inteso come legge che regge l’universo e agisce sulla natura continuamente modificandola, sembra negazione del libero arbitrio, invece ne è solo la cornice, cioè il limite, entro la quale si disegna il quadro della libertà dell’uomo. L’uomo muore e non c’è volontà contraria che tenga. Se ne potrebbe dedurre, con superficialità, che, perciò, è inesistente. Ma sarebbe una conclusione assoluta. Entro i limiti della cornice, cioè la superficie della tela o della tavola o del muro, l’artista è libero di sviluppare i suoi concetti estetici; diversamente sarebbe come sostenere che l’ineffabile, trascendentale e quasi metafisico sorriso della Gioconda non esprime la libertà di Leonardo, perché Leonardo è mortale e soggiace alla finalità suprema che lo vuole oggetto di sepoltura. La libertà assoluta è fuori del tempo e dentro la finalità generale, è l’eternità. Anche la massima libertà dell’uomo, che si esprime nell’agire per il bene o per il male, subisce i suoi condizionamenti, che saranno i limiti della coscienza individuale, il momento storico, il contesto sociale e le leggi. Qualcuno (Mussolini, Discorso alla Camera dei Deputati, 15 luglio 1923) ha sostenuto che non esiste la libertà, ma una serie di singole libertà ed è nel loro contesto che si esprime la libertà dell’uomo. D’altra parte, basta guardare alla storia dell’uomo che è in lotta per la libertà. Ma quale libertà? Per essere concreti, quella politica. Non esiste la libertà di “nascere di domenica”, come dicono i tedeschi, o “con la camicia” come dicono gli italiani; si nasce e basta e libertà è mancanza di divieti di comprarsi la camicia.

 A questo punto è forte la tentazione di affermare che nella visione naturalistica di un finalismo puramente materialistico l’uomo nasce solo per morire. Ma, se si vuol affermare, per certezza o per speranza, che esiste un “dopo”, un “aldilà”, allora valgono le confortanti riflessioni del teologo Joseph Ratzinger papa Benedetto XVI, nelle “Ultime conversazioni”, pagg. 28-29, in forma di intervista di Peter Seewald. Sul punto della vita eterna, Sewald chiede:

«Lei che cosa si aspetta?».

Risponde Ratzinger:

«Ci sono vari livelli. Prima quello più teologico. Qui sono di grande consolazione e fanno molto riflettere le parole di sant’Agostino. Nel commentare il Salmo “Ricercate sempre il suo volto” [Salmo 104, n.d.r.] dice: questo “sempre” vale per l’eternità. Dio è tanto grande che noi non finiremmo mai di conoscerlo. È sempre nuovo. Il nostro è un moto continuo e infinito, una scoperta e una gioia sempre nuove. Queste sono riflessioni teologiche. Contemporaneamente c’è il lato, del tutto umano, per cui sono contento di rivedere i miei genitori, i miei fratelli, i miei amici insieme e di immaginare che sarà bello, come un tempo a casa nostra».         

Il pensiero teologico di Ratzinger non è meramente consolatorio: è anche razionale, perché la teologia è la spiegazione di Dio nella razionalità. Perciò è convincente, se abbiamo il coraggio di pensare che esistono un ultra-spazio e un ultra-tempo.