I “tigì”, in questi giorni di siccità meteorologica e giornalistica, si sono buttati sull’euro, la c.d. “nuova” moneta, che materialmente sta sostituendo le tanto criticate lirette di Bankitalia nei portafogli e sfondando le tasche con mitragliate di centesimi. Il fenomeno è fittiziamente esasperato, nei suoi aspetti sociologici, da striminzite interviste a pensionati e casellanti, generalizzate più o meno abilmente come fosse il dramma dell’intera nazione o dalle dichiarazioni degli onorevoli ministri Bossi e Martino, che guidano il cosiddetto partito degli euroscettici, per non parlare dell’abbandono di Ruggiero, delle cui delusioni non importa niente a nessuno, salve chiacchiere e roboanti dichiarazioni di politici a corto di veri argomenti. Sono fenomeni ormai vecchi, rinverditi dalla grancassa televisiva, senza tener conto che il piccolo schermo è deformante non solo per le immagini, ma anche per i soggetti, che davanti alla videopresa reagiscono istintivamente in modo diverso. Cioè: davanti al cineoperatore qualsiasi uomo si trasforma, si esalta, si esaspera. Provino a intervistare un “quidam”, preavvertendolo che resterà “fuori campo”, e si noterà la differenza in sincerità.
Cerchiamo di ricordare, invece, solo alcuni dei fenomeni lasciati nascosti dalla superficialità della cosiddetta “notizia”.
1. L’euro non è una “nuova” moneta. È solo il passaggio da “moneta di conto” a strumento monetario effettivo. Facendo i debiti scongiuri per il paragone, è come se l’Argentina, prima di abbandonare la parità fissa con il dollaro, avesse fatto circolare il biglietto verde (la motrice) al posto del peso (il rimorchio). La parità fissa significa appunto che una moneta vale l’altra, mentre la sovranità monetaria viene rinunciata a favore della più forte delle due. Quando nel marzo 1998 l’Italia scelse l’ingresso nell’euro ha fatto qualcosa di simile. Quindi, dall’inizio di quest’anno si è solo attuato materialmente ciò che “contabilmente” già esisteva. Con il che non si vuol minimizzare che vi siano consumatori in difficoltà, ma più per le “fregature” architettate dagli eurofurbi che dal cambio di moneta. Gli italiani non sono un popolo di euroscemi e hanno ricevuto in eredità, da almeno otto secoli, l’abilità di destreggiarsi contemporaneamente con fiorini, ducati, marenghi, baiocchi, denari, scudi ecc., senza contare l’attuale turismomania, che li costringe (poverini!) a frequenti usi delle rupie delle Seicelle, ecc. Sanno che il vero problema non è la moneta, ma è il prezzo e, senza essere economisti, che, tra l’altro sono particolarmente silenziosi in questi giorni, sanno che anche i prezzi sono relativi. I milanesi che pagavano 1500 lire un caffè (i romani solo 1000!), lo ritenevano economicamente potabile rapportandolo al proprio stipendio espresso in lire. Ora lo stipendio sarà in euro e pure il caffè, ma il problema è proprio la relazione tra i due parametri con in più il dubbio che i conti mensili del bilancio familiare non tornino. È un po’ come se ci obbligassero a parlare una nuova lingua invece dell’italiano: almeno per un certo tempo dovremmo pensare in italiano, fare una rapida traduzione mentale e finalmente abbaiare nella nuova favella. Se si considera che quando la Francia di De Gaulle nel 1960 sostituì il franco pesante a quello leggero i francesi impiegarono alcuni anni ad abituarsi, nonostante fosse solo questione di dividere per 100 e non per 1936,27, c’è da essere meno ottimisti del buon presidente Ciampi, che non deve certo occuparsi dei rifornimenti del Quirinale. Ma, allora, c’è da iscriversi al partito degli euroscettici?
2. Bossi e Martino sono i capi storici di quel partito e per motivi ben diversi. Bossi, per la verità è per sua ammissione “uno che se ne frega dell’euro” e, quindi, non la mette in termini di scetticismo, ma di delusione per la mancata realizzazione di una “devolution” monetaria padana, più o meno folcloristica. Martino, che di economia soprattutto monetaria ne mastica più degli altri governanti, sostiene da anni una tesi che ogni europeo di buon senso non può non condividere: l’Europa non si costruisce con una moneta, perché, se mancano i presupposti politici e una vera integrazione economica, con i biglietti di banca ci facciamo vento. La debolezza dell’euro rispetto al dollaro e il disorientamento nella politica estera e nei programmi di difesa e intervento in fenomeni ricorrenti di esplosioni belliche, gli danno pienamente ragione. Il problema è un altro e non verificabile: come reagirebbero Martino e tanti euroscettici come lui davanti a proposte concrete di vera integrazione politica e militare? Manca la prova, ma non è difficile ipotizzare che troverebbero altre motivazioni di contrarietà. Forse a Martino andrebbe bene solo un’Europa retta da partiti liberali e non socialisti. Ma gli europei non riuscirebbero mai a essere liberisti e liberali!
3. Il terzo problema è il più strutturale. Quando nei primi anni Novanta, l’Italia scelse tra un sistema bancario retto su aziende polifunzionali, invece di quello tedesco basato sulla hausbank, venne di moda confrontare il sistema economico-finanziario anglosassone con quello renano. I successi dell’economia tedesca ne dimostrano ancor oggi la superiorità. Ciononostante la Germania sta abbandonando il suo sistema superiore per quello anglosassone, basato su borse e mercati, anziché sul consociativismo da socialismo più o meno annacquato. Perché? Si dice in genere: perché l’internazionalizzazione e la globalizzazione hanno imposto l’abbattimento delle barriere, che il sistema renano poneva verso l’esterno, in modo più o meno palese. Non si può negare che questa sia la vera motivazione, anche se resta il sospetto che il mondo non sia poi tanto preda della multinazionali, quanto della borsamania, manovrata dietro le quinte da aioli banchieri e operatori finanziari e lo dico senza intento di dietrologia. Il problema non è banale e ristretto alla sola questione se i capitali necessari all’impresa italiana saranno reperiti in borsa o in banca, ma riguarda la struttura del nostro sistema economico. Uno studio recente di Bankitalia (Pagano-Schivardi:“Firm size distribution and growth”) rileva che le nostre imprese hanno una dimensione mediamente pari alla metà della media UE e valuta il fenomeno con preoccupazione forse eccessiva. L’Italia che ha vinto sino a oggi non è quella della Fiat, ma delle pmi e dei distretti. A ai il distretto, con la sua carta vincente della “specializzazione flessibile” ha inventato la globalizzazione a livello locale, prima che il mondo inventasse quella internazionale. Allora, la vera domanda è: il nostro sistema industriale che ha saputo essere grande nel piccolo, potrà reggere in un’economia europea integrata e governata da banche, che, a suon di annessioni più o meno indigeste, stanno perdendo ogni contatto con il territorio? Gli economisti che blaterano sui massimi sistemi farebbero bene a intervistare le pmi, per constatare se il credito è ancora al servizio dell’impresa oppure se è diventato a sua volta una moneta anonima. L’impresa al servizio del credito invece del credito al servizio dell’impresa può essere una svolta ben più drammatica di quella del consumatore alle prese con le nuove monetine.
(Articolo pubblicato in “ItaliaOggi” del 9 gennaio 2002)