Nell’atrio del tempio dedicato ad Apollo, a Delfo, si leggeva il consiglio: “Conosci te stesso”, che avviò la filosofia antica. Dopo più di duemila anni Cartesio, constatato che, se era in grado di pensarsi o di dubitare, poteva essere certo di esistere, riassunse la sua conclusione nel famoso “si cogito ergo sum” e avviò la filosofia moderna. Ma in mezzo sta Sant’Agostino con l’affermazione “si fallor ergo sum ” (se erro, sono), che avviò l’analisi del rapporto tra la propria coscienza e la caduta. Agostino è certo più problematico di Cartesio, perché coinvolge drammaticamente e totalmente la coscienza, che è più di un “cogitare”, perché attrae anche l’aspetto morale del pensare e interessa, oltre il teologo, lo psicologo. In nuce il detto di Agostino è già compreso nel graffito di Delfo, perché la coscienza di sé nell’errore esige l’autoconoscenza, mentre Cartesio sembra fermarsi alla constatazione. Mi pare che senza questa premessa non si possa capire il Dostoevskij dei Demoni, in cui il romanziere analizza, con la forma del romanzo, ma la profondità di un grande psicologo, il problema e la tragedia del “male”. In una pagina (la 221 nell’edizione 1994 Einaudi) Kirillov colloquia con Stavrogin, il demone del male, e afferma che: “…L’uomo è infelice perché non sa di essere felice… gli uomini sono cattivi perché non sanno di essere buoni… bisogna che sappiano che sono buoni, e tutti diventeranno subito buoni… “. Il lettore si chiede se l’autore abbia proposto un paradosso oppure uno strano gioco dialettico. Dostoevskij è stato un grande dono della natura alla Russia, all’Europa e al mondo intero. Scriveva romanzi da cinquecento pagine in su, ma niente banalità. Chi non lo studia non può capire la storia della Russia e intuirne l’avvenire. Che ha voluto dire in quella pagina? Innanzi tutto che è necessaria la conoscenza di sé, della propria bontà, perché non è vero che l’uomo buono può esserlo inconsapevolmente. Per Dostoevskij essere buono vuol dire sapere di esserlo, ma per sapere di esserlo bisogna assumere coscienza piena del proprio rapporto con il bene, perché solo “dopo” la conquista della consapevolezza l’uomo potrà essere buono. È buono l’uomo che conosce la differenza tra il bene e il male, in agguato. Si spiega così il verbo “diventeranno”, che non è uno stato, ma una dinamica, un percorso. Questa pagina ha impressionato anche Henri de Lubac, che la richiama a pag. 286 (edizione Morcelliana, 1978) del suo saggio “Il dramma dell’umanesimo ateo”. Ma Dostoevskij non si è posto la domanda che accadrebbe all’inverso, se l’uomo sapesse di essere cattivo. Sarebbe o diventerebbe ancor più cattivo oppure diventerebbe comunque buono? Forse l’ansia di contrapporre il bene al male, in un processo dialettico anche inconscio, e di far vincere il bene, ha fatto trascurare a Dostoevskij che la consapevolezza del male non redime quell’uomo malvagio, che nel male si ritrova a suo agio. Si pensi a quanti crimini vengono consumati da condannati in licenza per “buona condotta”. Il dualismo bene-male è alla base della dialettica. Chi conosce il bene non può ignorare il male e viceversa e Dostoevskij lo sapeva meglio di altri. Allora l’affermazione di Kirillov va letta così: “chi conosce il bene ha la possibilità di apprezzarlo e di cessare di essere cattivo”, ove la conoscenza è la chiave di volta del sistema. Il cristianesimo è altra cosa: Cristo non è venuto a spiegare il male, ma a redimerlo. La spiegazione l’ha lasciata a filosofi e teologi, che hanno riempito i secoli di teoremi, ma lasciando l’uomo a Delfo . Però, un chimico, ricorrendo a un’analogia nella sua professione, ci potrebbe dimostrare che un insieme bene-male (la dialettica dei filosofi) non porterà mai a una miscela, ma a un’emulsione. Alla fine, che è anche la fine dei “Demoni”, Dostoevskij, nel suo sofferto indagare il bene e il male, lo ammette: fa scrivere a Stavrogin una lettera in cui il “demone” dimostra sanità di mente e consapevolezza del male e poi lo fa suicidare. Decisamente in Dostoevskij prevale il romanziere, che, però ha trascurato che, se è vero che il bene bisogna conoscerlo e conoscersi nella possibilità di realizzarlo, quella “possibilità” implica la “libertà”, senza la quale ogni tipo di conoscenza è sterile, anzi inutile. Ma qui si apre il problema più controverso: se possa ancora esistere una libertà nello scegliere il male o se la vera libertà non sia solo quella di rifiutare il male a favore del bene. Viene in mente il fumatore incallito che, non avendo la forza di liberarsi dal vizio, sostiene che la scelta di continuare a fumare è “libertà”, ben sapendo che, invece, è schiavitù. Anche questo conosceva Dostoevskij, vizioso incallito frequentatore di case da gioco. Si potrebbe persino affermare che molti uomini non lottano “per” la libertà, ma “contro”.