L’economia trova nella flessibilità il suo più adatto brodo di coltura; purtroppo è come un traguardo che si allontana continuamente, mentre ci si affanna a raggiungerlo. Il capitalismo, che dopo il fallimento dell’utopia socialista, si è confermato l’unica forma di economia reale possibile, è naturalmente portato alla rigidità, perché esige dimensioni sempre più complesse e di lunga durata, sia quando coinvolge investimenti di capitale fisico e sia quando include nei suoi processi capitale intellettuale o come oggi si dice “capitale intangibile”. L’intuizione creativa, quella che può introdurre nella conoscenza un nuovo paradigma, può essere ancora un prodotto dell’intelletto individuale, ma la sua realizzazione è sempre il risultato di un lavoro collettivo. Esemplare è il mondo dell’informatica, che riesce a produrre programmi solo per opera del lavoro di più squadre, coordinate e organizzate. Nella scienza, ammesso di riuscire ancora a distinguerla dalla tecnica, il processo di organizzazione è condizione di successo. Il premio Nobel viene dato a un uomo, ma in realtà si premia il capo di un team. Se questa è la regola, la rigidità diventa una componente quasi fisiologica. Eppure il capitalismo si salva solo se pone tra i suoi obiettivi la realizzazione di condizioni di flessibilità, perché nella rigidità non si ha crescita economica e nella società non si ha sviluppo. Il paradosso del capitalismo sta qui: irrigidirsi con investimenti di capitale sempre più imponenti per crescere e ritrovare la flessibilità per non bruciare la crescita. In questa accezione, flessibilità diventa, allora, nella microeconomia la capacità del soggetto economico, sia esso produttore o consumatore, di adattarsi con rapidità ai cambiamenti del mondo esterno, ma ciò esige due condizioni: una elasticità interna, che consenta l’adattamento al nuovo in tempi brevi, se non anticipati, e un flusso di corrette informazioni esterne, portatrici dell’esigenza di adattamento. Non diversa la posizione della macroeconomia, che riguarda un’intera area economica, nazionale o sovranazionale, e subisce le rigidità delle istituzioni politiche e sociali. Chi non realizza queste condizioni subirà sempre il flusso incombente degli eventi e, considerando che le fluttuazioni sono componenti congenite dell’economia, finirà per posizionarsi nella parte più bassa del ciclo economico, vivendone, ma non sempre sopravvivendo, le situazioni più patologiche del flusso macroeconomico. La flessibilità è come la modulazione di frequenza delle onde radio, che canalizzandole, toglie i picchi e quindi i disturbi delle trasmissioni, consentendo l’ascolto. Il termine è diventato uno slogan, una parola d’ordine, accusa e colpa per chi non la sa conseguire e, come tutti gli slogan, spesso si riduce a parola vuota, quando non a ipocrisia. Basta sfogliare la pagina economica di un qualsiasi quotidiano anche di provincia per leggere ogni giorno l’individuazione della causa della caduta dell’euro nella incapacità dell’Europa di realizzare adeguate condizioni di flessibilità, soprattutto nel mondo del lavoro. Di flessibilità auspicabile nel campo del lavoro parlano persino i sindacati, i quali, però, fanno il gioco della signora Penelope, che disfa di notte quel che tesse di giorno e così resta al punto di partenza, ma con la differenza che, in economia, Ulisse non torna e la produzione perduta per causa di rigidità è perduta per sempre, è crescita mancata e progresso non conseguito. Eppure, però su altri fronti, la flessibilità non è parola tartufesca. Si pensi al fenomeno della industrializzazione del “distretto industriale” italiano, che ha retto, sin qui, il confronto con altre forme di organizzazione della produzione, proprio per merito della flessibilità dei processi produttivi. Si pensi ancora all’organizzazione della produzione per “specializzazione flessibile”, che ha sostituito la “produzione fordista”, la grande serie con la piccola serie e ha consentito significativi recuperi di competitività sui mercati. Si pensi all’avvento di “Internet” salutato come rivoluzionario strumento di flessibilità per la possibilità di reperire in tempi brevissimi rapporti e conoscenze, che solo una rete informatica mondiale può consentire. Come in occasione di altri fenomeni di turning point anche per “Internet” vi sono molte esagerazioni, gonfiate dall’ingenuo entusiasmo dei neofiti, ma anche dal marketing interessato di molti addetti ai lavori. Però non se ne possono ignorare o negare i vantaggi, perché ogni conoscenza, soprattutto se accompagnata da rapidità di diffusione, porta sempre incrementi. Ragionare in termini di flessibilità è più di una modalità e sta diventando una condizione della razionalità economica o della razionalità tout court. Nel “Bollettino” di luglio, nell’articolo dedicato alla “Trasmissione della politica monetaria nell’area dell’euro”, la Banca Centrale Europea ci ricorda che le variazioni dei tassi di interesse o della base monetaria possono trasmettersi alla spesa nominale di famiglie e imprese in relazione al grado di rigidità dei prezzi e più in generale alla flessibilità dell’economia. È più di un memento, è un’accusa; come a dire: noi della BCE facciamo del nostro meglio, ma se l’economia europea rimane irrigidita non otteniamo risultati. Un po’ come il massaggiatore dello sportivo: se il suo paziente sta rigido e bloccato, ogni massaggio aggrava solo la stanchezza muscolare. Il massaggiatore Duisemberg e gli altri commissari della BCE forse hanno concluso che nessuna politica monetaria, sui tassi, sul credito, sulla massa monetaria, sulla circolazione dei bund può ottenere un qualsiasi risultato anche solo nel breve periodo, finché la flessibilità non diventa il denominatore comune di tutti i processi economici. (articolo pubblicato anche in “ItaliaOggi” del 6 ottobre 2000)