Pietro Bonazza

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“FINANZA e IMPRESA non finanziaria”

 

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(articolo pubblicato sulla “Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale”, anno 2003, n. 5/6)

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Sommario:

1. L’impresa industriale e la sua evoluzione

1.1. Alcuni principi generali atemporali

1.2. Cambiamenti nelle caratteristiche di gestione

1.3. Ricaduta sulla finanza della nuova struttura dei processi produttivi

2. Impresa e finanza

2.1. Reperimento delle fonti

2.2. L’impresa e la borsa

2.3. L’impresa e la banca

2.3.i. Rapporti creditizi

2.3.ii. Rapporti nei servizi finanziari

2.3.iii. Un ponte sui disallineamenti

3. Quale futuro?

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1) L’impresa industriale e la sua evoluzione

 

1.1 Alcuni principi generali atemporali

 

La fretta convulsa di questi tempi ci fa spesso dimenticare le origini del sapere economico e, nei rari momenti in cui possiamo fermarci a pensare, se ignoriamo quelle radici, corriamo il rischio di costruirci la presunzione di essere scopritori di verità nuove. Invece, le poche idee che reggono il mondo sono quelle di sempre e, anche se oggi sembra che l’imperativo categorico sia “creare valore”, due sono soprattutto i principi da non dimenticare:

la banca non finanzia operazioni, ma imprese;

i debiti si rimborsano con il reddito.

Se pensiamo all’impresa non finanziaria come a un affare che si sviluppa a partire da un tempo x e si conclude nel tempo x+y ci accorgiamo che in condizioni non patologiche tutto il credito ricevuto deve essere rimborsato. Che cos’è infatti la procedura di liquidazione dell’impresa se non un ritorno alle origini mediante la monetizzazione delle attività e il pagamento dei debiti? L’imprenditore è partito con un capitale di 100 in moneta e si ritroverà con 100 o con 1 o con 1000, ma sarà sempre moneta “netta” di debiti. Ora il problema è: chi e come è in grado di gettare un ponte con professionalità tra il tempo iniziale x e il tempo finale x+y?

Lo spirito dell’impresa è il “valore” e se lo spirito del valore è il tempo, ne viene, per conseguenza, che lo spirito dell’impresa è il tempo, anche perché il valore si crea nel tempo e con il tempo.

Il tempo, al di là della sua precisione determinata per convenzione dalla scansione dell’orologio, è di difficile definizione, ma, comunque, è una realtà oggettiva, almeno in economia, nel senso che l’homo oeconomicus, nel nostro caso l’imprenditore, cioè il soggetto, non può modificarlo, però può governarlo. Governare il tempo è possibile solo se si è in grado di inserire nel suo scorrere oggettivo lo strumento della “previsione”, in funzione di progetto di un ponte tra il presente e il futuro. Ma un progetto resterebbe fermo allo stadio di idea, se non avesse a disposizione uno strumento di attuazione, che può essere visto nella “finanza”, attività ormai affrancata dall’economia, quanto meno dall’economia della produzione e con questa in posizione dialettica. Il risultato di questa posizione, che quando funziona è alleanza, è una collocazione della finanza nel passivo dello stato patrimoniale di bilancio dell’impresa. Ma il passivo, soprattutto la parte costituita dalla finanza, non può essere lasciato a se stesso una volta costituito, ma deve essere gestito e questa è la funzione del liability management.

Quindi possiamo disegnare una specie di asse costituito dai rapporti causa-effetto tra tempo e previsione, previsione e finanza, finanza e liability management.

Constatiamo, quindi, che il tempo è l’anima dell’impresa e la previsione può essere definita “la gestione del tempo”.

Ma che cos’è la previsione? Definirla con precisione è operazione difficile, però si può constatare che rispetto al passato, in cui era capacità o presunzione quasi prometeica, oggi, con i progressi della matematica probabilistica diventata l’anima dei programmi informatici basati sulla casualità e sul random walk affidati in gestione a computer sempre più potenti, la previsione è strumento di grande ausilio per l’imprenditore, che può sfruttare il mercato dell’informazione, fonte di dati di ogni tipo, disponibili nel tempo reale consentito da Internet. Semmai il problema è selezionare dalla massa i dati veramente utili, cioè atti a essere inseriti nelle variabili che i sistemi di equazioni, costituenti il software, richiedono per la soluzione.

Quindi, la “previsione” può essere definita come l’interpretazione di una possibilità, misurata a base probabilistica, di ciò che è razionale attendersi nel futuro e sta alla gestione dell’impresa pressappoco come la bussola sta alla navigazione. Mi pare possibile intendere la previsione come una “ermeneutica del futuro”.

Sui testi classici abbiamo appreso che quattro sono i fattori della produzione: terra, capitale, lavoro e imprenditore, a cui oggi più che in passato bisogna aggiungere il “tempo”, perché è diventato addirittura il fattore strategico della produzione e perché, come gli altri quattro, ha la caratteristica della scarsità [1].

Però, in economia il tempo non può essere ridotto a sola scansione di calendario, ma ha il più profondo significato di espressione di disallineamenti. L’economia statica è una finzione; reale è quella dinamica, ma il dinamismo è in pratica un incrociarsi e un susseguirsi di disallineamenti, cioè di fasi in cui i tempi non collimano. In alcuni di essi la finanza diventa lo strumento diretto di raccordo, in altri casi assume funzione di strumento indiretto. Come a dire che in un modo o nell’altro la finanza c’entra sempre. Possiamo ricordare due disallineamenti, a cui è sottoposta l’impresa nel suo divenire:

tra i tempi del ciclo di produzione e quelli del suo finanziamento;

tra i tempi del ciclo di produzione e quelli del ciclo commerciale dei prodotti.

Se il tempo ha l’importanza fondamentale sopra attribuita, anche a voler prescindere dall’esistenza della finanza come strumento pareggiatore, ci dobbiamo porre una domanda, che insieme alla sua corretta risposta costituisce il pilastro portante di tutta l’economia. La domanda è:

in economia esiste una “dialettica dei tempi”? E, se esiste, è componibile nella sintesi? A mio avviso, sì e sempre, se funziona il mercato, l’arena dove ci sono sempre un vinto e un vincitore, che conclude e impersona la sintesi reale della dialettica dei tempi [2]. Poiché il fenomeno del disallineamento non è ignorabile, perché a determinarlo sono prevalenti forze esterne, che la singola impresa, anche di grandi dimensioni e multinazionale, non può governare, ne deriva che l’unico correttivo o tentativo di correttivo è la previsione – in funzione di ponte tra i tempi – che deve fare i conti anche con i fenomeni dell’autoreferenzialità e autorealizzazione, tipici dell’economia e ancor più della finanza, che subisce in modo più acuto l’«effetto gregge» [3] prodotto dalla imitazione. Per esempio: se un guru della finanza, tipo Soros, vende un titolo o una moneta, molti lo seguiranno nel vendere e l’effetto si moltiplicherà. Ora, inserire nella previsione anche la componente di quel che potrà fare un Soros rende le cose ancora più difficili.

È sempre il mercato il luogo dell’incontro e dello scontro, che ci consente di concludere che in economia non è ammesso il “fai da te”, perché quando non esiste un network i problemi possono trovare comunque una soluzione, ma a costi ben più elevati. Alla fine si potrebbe constatare che il mercato è un grande network, in cui la finanza assume un ruolo operativo di importanza determinante, al punto da essere, in funzione della sua efficienza, uno strumento di sviluppo o di arretramento. Ma quando si parla di finanza, bisogna anche precisare che cosa si intende in concreto. Per finanza, quando è collegata all’impresa, intendiamo tre figure: la borsa, la banca, i mezzi propri quando non sono assorbiti nella borsa.

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1.2 Cambiamenti nelle caratteristiche di gestione

 

Abbiamo prima richiamato il fenomeno, non nuovo ma oggi esasperato, dei disallineamenti tra i tempi del ciclo di produzione e quelli del ciclo commerciale dei prodotti, che può essere così descritto:

nonostante la sostituzione dei processi di produzione fordisti ad alto assorbimento di capitale con processi a “specializzazione flessibile”, più capital saving rispetto ai precedenti, si notano:

a) processi produttivi sempre più esigenti di investimenti in capitali fissi, soprattutto per la parte crescente assorbita dall’informatica, a rigiro sempre più rapido (cioè con ammortamenti sempre più brevi, quindi con aliquote sempre più elevate). Su questo argomento si ritornerà a proposito dell’obsolescenza accelerata del capitale fisso;

b) processi di commercializzazione del prodotto sempre più brevi. Su questa constatazione si ritornerà a proposito dell’obsolescenza accelerata del prodotto.

È noto che l’impresa persegue normalmente due obiettivi principali:

§ l’espansione dei ricavi, che in genere consente “economie di scala” e un posizionamento di forza sul mercato nel tentativo di essere price-maker,

§ e un parallelo obiettivo di contenimento o riduzione dei costi relativi. Su questo fronte si notano negli ultimi anni tre politiche particolari:

energy saving, sotto la pressione iniziale del primo shock petrolifero del 1973, che ha stimolato la realizzazione di macchinari funzionanti con minor assorbimento di forza motrice;

labour saving, spinto dalla prolungata mancanza di moderazione salariale o da carenza di offerta del fattore lavoro;

capital saving, stimolato dalla carenza di capitali determinata anche dalla continua innovazione tecnologica, che abbrevia il ciclo economico utile del capitale fisso, accelerando l’obsolescenza. Rientrano in questa ottica di risparmio le progettazioni di macchinari sempre più flessibili e in grado di saltare i tempi lunghi del riattrezzamento per i cambi da una produzione all’altra richiesti dalla produzione flessibile in piccola serie. Si veda l’esempio delle macchine del legno viste alla fiera internazionale di Milano del 25 maggio 2002 ove sono state presentate macchine che riescono a svolgere da sole, senza perdita di tempi intermedi, le fasi di lavorazione di ben quattro macchine combinate. Questo già è un esempio della possibilità evolutiva offerta dall’introduzione dei computer nei processi produttivi. Si pensi che il robot e le varie macchine a controllo numerico sono meno di “pezzi di ferro” senza il computer.

A fronte di questi fenomeni della produzione e della commercializzazione, che si leggono nel “Capitale Investito” CI, cioè nell’attivo dei bilanci costituito dalle due voci principali: immobilizzazioni e magazzino, sta il tipo di reperimento delle fonti, normalmente costituite dal canale della borsa o da quello bancario.

L’analisi critica del “Capitale investito”, in larga misura coincidente con l’attivo dello stato patrimoniale, ha reso ormai diffuso l’impiego con sistematicità e periodicità dei ratio del ROI o sue varianti, che evidenziano i rapporti tra reddito più o meno lordo e gli asset. Merita però non minore attenzione l’analisi della politica gestionale dal punto di vista delle passività della situazione patrimoniale, il liability management, da estendere ben oltre una gestione del passivo limitata ai fidi bancari ottenuti. In proposito si deve constatare che la politica gestionale del liability management è diventata di moda per le banche, le società finanziarie e le compagnie di assicurazione negli ultimi quindici anni, o meglio: è diventato di moda “parlarne”, perché da sempre il management bancario gestiva il passivo, anzi ancor più in passato, quando il sistema bancario intermediava tutto il risparmio canalizzato sui depositi bancari, che la banca reimmetteva nel sistema economico con impieghi creditizi e con ingenti investimenti in titoli di stato. Ma, come è ormai consueto, il mondo anglosassone ci restituisce con parole nuove cose vecchie, che così appaiono anch’esse nuove, tanto è vero che la nuova locuzione completa è “assets and liabiliies management”(ALM), come a dire che il passivo si gestisce in una visione globale e integrata con l’attivo, allo scopo di monitorare continuamente i vari tipi di rischio [4]. Però non è solo questione terminologica, perché qui torna in evidenza la scarsità di capitale, che richiede maggior attenzione alla gestione dell’esistente e alla programmazione del futuro. Ora, se ciò è vero per l’azienda bancaria, a maggior ragione deve esserlo per l’impresa industriale, che deve amministrare oltre i due tipi di asset tradizionali: capitale fisso e circolante tipici dell’oggetto sociale, anche un terzo: la parte finanziaria, esaltata dalla nuova struttura dei mercati, che ha dilatato le integrazioni tra società mediante il sistema delle partecipazioni. La vecchia società “conglomerale” è stata sostituita dal “gruppo societario”, consentendo operazioni speculative, ben oltre la gestione di tesoreria anche anticipata cioè al cash management, affidato in genere a ex operatori bancari migrati nelle imprese industriali. Questo fenomeno ha acuito il fabbisogno finanziario e spinge a sensibilità più accentuate e nervose il fronte delle passività.

In questo ambito bisogna ancora considerare un fenomeno di disallineamento che ha riflessi sul passivo. Se, facendo astrazione dai settori maturi, si esamina la durata del processo produttivo di beni di massa ad alto contenuto tecnologico, dal momento dell’idea iniziale del prodotto (per esempio: l’ipotesi di lanciare sul mercato un nuovo tipo di videoregistratore o un nuovo modello di telefono cellulare o un nuovo modello di personal computer) fino al momento della commercializzazione, si constata che, seppur con la flessibilità dei nuovi sistemi di produzione, che hanno sostituito il modello fordista, l’impresa sia riuscita ad accorciare un po’ i tempi, cioè la durata complessiva dall’idea all’inizio della produzione è pur sempre di parecchi mesi e in genere ben più di diciotto. Di contro, la vita commerciale veramente utile del prodotto è di pochi mesi, perché la concorrenza è talmente in agguato e pronta, che riduce la redditività del prodotto a tempi molto più brevi rispetto al processo di produzione. Questo fenomeno definisce un ulteriore effetto-tempo, sicché possiamo constatare che molti settori del mercato dei beni, ma anche di molti servizi, oggi soffrono di due accelerazioni, convergenti negativamente sull’impresa:

l’obsolescenza del capitale fisso, sempre più esasperata per l’avanzare incessante della tecnologia, che fa invecchiare rapidamente le immobilizzazioni, dai macchinari al know-how (obsolescenza industriale);

l’obsolescenza del prodotto, che accorcia sempre più il ciclo di vita dei beni (obsolescenza commerciale).

Ora, qual è la ricaduta sulla gestione di questi fenomeni, che svolgono anche un effetto cumulo? Che il liability management diventa una necessità di sopravvivenza, o, quanto meno deve attivare una maggiore sensibilità rispetto al passato. Il complesso arcipelago delle passività può essere riguardato secondo due prospettive:

1. l’esame del passivo isolatamente, cioè secondo le sue componenti in rapporto o no ai “mezzi propri”. Per esempio: su 10 parti si ritiene ottimale che 3 siano il patrimonio netto, 5 il passivo a breve e 2 il passivo a medio-lungo termine;

2. l’esame del passivo in correlazione con l’attivo:

· in rapporto diretto (per esempio: si ritiene ottimale che i “mezzi propri”+ passivo a medio-lungo termine coprano il valore delle immobilizzazioni) oppure

· in rapporto indiretto attraverso il c/economico, per esempio: attraverso l’indice ROI, che misura la redditività degli impieghi (attività) coperti da certe fonti (passività).

 

1.3 Ricaduta sulla finanza della nuova struttura dei processi produttivi

 

Se il fenomeno è nei termini prima descritti, allora ha un senso continuare a parlare di effetto leva del passivo o leverage. Soprattutto ha senso, se si considera che nell’ultimo decennio c’è stato sì un incremento della quota di mezzi propri, ma questa non è stata sufficiente a coprire l’incremento di investimenti in immobilizzazioni, ciò che sembra accreditare il giudizio di sottocapitalizzazione delle imprese industriali italiane. In ogni caso, si può almeno constatare che il finanziamento del capitale circolante proviene in larga misura dal credito bancario. Torna la domanda: ma questo è un bene o è un male? Sappiamo che nell’ambito del più generale concetto del “leverage finanziario”, i migliori risultati si ottengono con una opportuna miscela tra “leverage creditizio”, cioè il rapporto tra capitale di credito e capitale proprio, e “leverage azionario”, cioè tra capitale proprio apportato dai soci di minoranza rispetto al pacco azionario di coloro che esprimono la governance dell’impresa [5].

2) Impresa e finanza

 

Se osserviamo una situazione patrimoniale di bilancio, la vediamo divisa in due parti con una linea verticale in mezzo. Questa rappresentazione a parti contrapposte, tra attività e passività, ha una sua grande utilità non solo visiva, ma si corre il rischio di intendere anche inconsciamente quella linea come un muro. Il condizionamento psicologico non cambia se invece di attivo diciamo “impieghi” e invece di passivo diciamo “fonti”.

L’invito a guardare le due parti della situazione patrimoniale di bilancio non come forze contrapposte, ma come vasi comunicanti, porta anche a considerare, tra l’altro, l’improponibilità del modello Modigliani-Miller, in voga negli anni Sessanta e ancora gradito a molti economisti, che attribuiscono a un’impresa indebitata un valore maggiore di altra analoga senza debiti e ciò per prevalenti motivi di deducibilità fiscale degli interessi passivi. Invece, si tratta di determinare, seppur con la difficoltà della proiezione al futuro, i costi finanziari dei mezzi propri rispetto a quelli del capitale di prestito e ciò a prescindere dal rapporto ottimale dal punto di vista del rischio tra le due fonti. Ma l’attenzione non deve fermarsi al passivo, perché l’analisi dei costi finanziari implica, attraverso il conto economico, un collegamento alla redditività lorda dell’attivo, cioè agli impieghi nelle parti delle attività di bilancio.

Qui bisogna ricordare una delle realtà fondamentali della gestione dell’impresa, ormai assurta a postulato e che così riassumo:

la società, ma potremmo dire l’impresa in genere, è una finzione giuridica, tant’è che anche quando le si riconosce la c.d. “personalità giuridica” ha sempre bisogno di una incarnazione nell’uomo: imprenditore individuale o amministratore singolare (A.U.) o plurale (amministratori e azionisti). Però, se ipotizziamo per astrazione, che la società sia un soggetto completamente autonomo al punto da considerare che anche il capitale sociale è un debito, e lo è al punto che non si può ignorare non l’obbligo giuridico ma quello economico di remunerarlo con adeguati dividendi, possiamo constatare agevolmente che l’impresa guadagna e aumenta il proprio valore se la redditività degli asset è più elevata dei costi finanziari del passivo compreso il capitale sociale. È questa in fondo la tesi del modello Modigliani-Miller: l’impresa A che guadagna tanto come l’impresa B pur essendo più indebitata, coeteris paribus vale più di B. Il punto debole della teoria è che non esiste, se non in casi eccezionali, il coeteris paribus. Però è pur sempre vero che guadagnare con i capitali degli altri è ciò che distingue un imprenditore abile e fortunato rispetto a uno normale, un po’ come comprare sul venduto. Ma questa non è la regola dell’imprenditore industriale, che affronta regolarmente processi produttivi di lunga durata.

2.1 Analisi delle politiche di reperimento delle fonti

 

Si è prima fatta un’ipotesi, che dal punto di vista giuridico è una provocazione, ma non sul piano economico-finanziario, e cioè che i soci della società di capitale siano, in concreto, dei creditori da remunerare con dividendi anziché con interessi. Perché non è una provocazione, ma una realtà sul piano economico-finanziario? Proviamo a immaginare che a un risparmiatore si proponga l’acquisto di azioni offrendo la certezza che non percepirà mai dividendi e che le azioni non saranno smobilizzabili. Basterebbe, per convincerlo, l’affermazione che è proprietario di una quota ideale dell’azienda? Possiamo star certi che reagirebbe più o meno allo stesso modo di un potenziale prestatore, a cui si dica che il prestito sarebbe infruttifero e irredimibile. Non troviamo capitali di alcun genere a simili condizioni, né di rischio, né di credito. Alla fine ogni tipo di danaro va remunerato. Ecco perché è stato prima affermato che l’imprenditore si deve porre davanti alle “fonti” in termini, seppur relativi, di arbitraggio e scegliere, tra capitale di rischio e capitale di credito, quello che costa meno, indipendentemente se sia deducibile quale costo nella determinazione del reddito, come lo sono gli interessi passivi, oppure se sia deducibile dal patrimonio dopo che l’assemblea ne abbia deliberato la distribuzione.

Fare finanza senza tener conto di questa realtà vuol dire non fare economia, perché l’imprenditore, che non mette il capitale sociale tra le fonti da remunerare non troverà i mezzi per gli impieghi e si noti che non sarebbe meno aberrante il caso del socio dominante, direi “tiranno”, che non si cura della remunerazione del capitale perché l’ha messo di tasca propria e non deve render conto a nessuno. Significherebbe che ha dimenticato l’analisi razionale di “sensitività”; avrebbe cioè dimenticato che ogni impiego di capitale deve sottostare all’analisi di simulazione del what if?, cioè : che cosa accade, in termini di rendimento, se lo stesso capitale è collocato in investimenti alternativi a remunerazione di mercato? Nemmeno il “padrone delle ferriere” di stampo ottocentesco e senza conoscere le sofisticate elaborazioni degli analisti dei nostri giorni cadrebbe in simili ingenuità e confusioni.

Nonostante l’esistenza del denominatore comune della remunerazione, indispensabile per tutte le fonti, le distinzioni dei giuristi tra capitale di credito e capitale dei soci non sono inutili. Diciamo che sono determinate da finalità diverse, che debbono continuare a permanere negli ordinamenti giuridici, anche se in situazioni evolutive, come dimostra la riforma del diritto societario in vigore dal 2003, che distingue le società in funzione del ricorso o no al mercato del capitale di rischio. Si può dire che la finanza entra nell’economia dell’impresa attraverso il diritto.

 

2.2 L’impresa e la borsa

Oggi le borse mondiali, le cui ore di apertura seguono il percorso del sole da Tokio a New York, sono costrette a operare in modo sempre più analogo, cioè all’americana, nei vari paesi, che hanno piazze finanziarie importanti, ma con sistemi produttivi e legislativi non ancora all’americana. Uno starnuto a Hong Kong diventa polmonite a Milano in mezza giornata. Ne deriva una frattura tra finanza ed economia, che è una delle cause delle difficoltà del presente. L’impresa industriale vive sempre più sul tempo futuro lungo, mentre la borsa vive sempre di più sul tempo futuro breve.

Questa realtà non sembra suggerire riflessioni più profonde della sua constatazione. Cosicché, oggi tra gli imprenditori e i loro consiglieri o consulenti o consigliori va di moda la locuzione “andare in borsa”. Certo; c’è stato un tempo in cui “andare in borsa” consentiva “scorpacciate” nel momento del collocamento, con l’idea, sbagliata, che poi il mercato si arrangiasse. Il mercato è un grande giudice, che, come l’Azdak del Cerchio di gesso nel Caucaso di Bertold Brecht, è spesso furfante, ma non dimentica mai di fare giustizia. Ritengo che i titoli tecnologici e la new-economy non c’entrino in questo fenomeno e che di economy ce ne sia una sola, né vecchia, né nuova. La verità è che vi sono troppi esperti, troppi analisti, troppi finanzieri, che per vivere e possibilmente arricchirsi debbono autoreferenziarsi. La finanza da ancella dell’economia è diventata padrona, non signora.

Tutti sono pronti a deplorare la cosiddetta “volatilità” delle borse, dimenticando che questa è l’effetto non la causa, che è invece nella speculazione, esasperata dalla presenza di operazioni allo scoperto sopra o a fianco degli strumenti derivati. Il problema è istituzionale, superabile solo con strumenti normativi: legislativi o autoregolativi. Se ne parla da anni e sono state proposte varie ricette; una delle più famose è la “Tobin tax”, ma il suo inventore, un economista Nobel serio e onesto, ha fatto a tempo a morire, senza vedere l’attuazione della sua o di altre ricette.

La realtà è allora quella di una borsa che opera in modo distorto rispetto alla sua funzione istituzionale di mercato di approvvigionamento dei capitali di rischio, perché il momento adatto per un collocamento non è più quello coincidente con le esigenze di investimento dell’impresa determinate da programmi e piani organici, ma è quello in cui si presenta l’onda favorevole dei mercati finanziari, cosicché quando il vento non spira si ricorre alla metafora equina: « il cavallo non beve », lasciando, invece, assetata l’impresa non finanziaria bisognosa di capitali.

 

 

2.3 L’impresa e la banca

 

Ritengo che la banca continui a rappresentare l’asse portante del rapporto impresa-finanza anche per le imprese di grandi dimensioni, che in borsa ci sono da sempre. Le crisi in atto di gruppi industriali, in settori così diversi come la meccanica e l’alimentare, mettono in evidenza esposizioni bancarie per valori imponenti al punto da coinvolgere le aziende di credito nell’analisi, tardiva, delle patologie e nella approvazione di proposte di piani industriali di risanamento.

Se, come si constata, la banca è il canale principale delle fonti di “mezzi non propri” dell’impresa, allora si può pretendere che, proprio per doverla ritenere istituzione insostituibile, la banca non rinunci a essere coerente con il territorio in cui intende operare e soprattutto con la dimensione delle imprese che intende finanziarie, principio a cui non sono sempre coerenti i modelli importati da advisor d’Oltreatlantico, spesso lontani dal primo principio ricordato all’inizio che la banca non finanzia operazioni ma imprese.

Si deve auspicare che la banca continui invece a essere un “ponte” per i disallineamenti dei tempi dell’impresa, non un anonimo ipermercato dove si trovi un po’ di tutto e di tutto un po’. Perché questo ponte funzioni è, di contro, necessario che anche l’impresa non finanziaria torni a considerare l’importanza di eleggere (quando possibile) la propria “banca di riferimento” per realizzare al meglio un’alleanza per l’ottimizzazione delle risorse, alleanza che non si può instaurare se di ogni operazione viene fatta l’ “asta”, come si trattasse del mercato all’ingrosso del pesce o lo spot del petrolio. Così facendo, si violerebbe proprio quel primo principio. Nell’era della infedeltà e della perdita dei valori ricordiamo che la fiducia è un bene economico [6].

 

2.3.i Rapporti creditizi

 

Nei primi anni Novanta si è sprecato molto inchiostro sul fenomeno annunciato della “disintermediazione bancaria” a causa della preannunciata esplosione del concorrente canale della borsa e dell’avvento di una dilagante securitization o titolarizzazione, per cui avremmo visto masse di valori passare, nei bilanci bancari, dalla sezione delle attività ai conti d’ordine, o come si dice in gergo da “sopra la riga” a “sotto la riga”. Di conseguenza, essendo il settore delle imprese “non finanziarie” in buona parte speculare a quello delle banche, avremmo visto crescere i “mezzi propri” a scapito dei debiti verso banche, merito del reperimento dei capitali in borsa. È stato veramente così? Perché, se non si è verificato quel fenomeno, significa che le imprese sono ancora banche-dipendenti come in passato e potrebbe essere un bene (a mio avviso e a certe condizioni, lo è). Dalla pubblicazione annuale di Mediobanca Dati cumulativi di 1893 società italiane del 2001 si possono desumere questi dati di sintesi e cumulativi del campione:

sul totale dell’attivo netto, l’attivo corrente era nel 1991 il 51,6%, mentre nel 2000 il 45,5%; per differenza l’attivo immobilizzato netto era il 48,4% nel 1991 e il 54,5% nel 2000. È probabile che l’incremento relativo delle immobilizzazioni riveli un miglioramento nella struttura produttiva del settore industriale;

sul totale del passivo netto (ovviamente uguale al totale attivo), il capitale netto passava dal 30,6% del 1991 al 35,4% del 2000, quindi una crescita inferiore a quella dell’attivo immobilizzato. La prima considerazione è che l’esplosione della “andata in borsa” è rimasta una “passeggiata” e non una corsa. La seconda è che il maggior immobilizzo dell’attivo è stato finanziato almeno in parte con fonti di breve termine.

Ma questo ancora non ci dice se è cambiato il peso relativo dell’intervento bancario. Però, dal Bollettino economico n. 38/2002 della Banca d’Italia ricaviamo dati, che, seppur derivati non da un diverso campione, ma dall’intero sistema delle imprese non finanziarie, possono essere significativi di una tendenza. Se consideriamo il totale dei debiti sull’interno notiamo che le passività verso le banche erano costituite per l’84,225% al 31.12.1992, mentre al 30.9.2001 erano scese all’83,75%, cioè meno di mezzo punto. Dov’è la disintermediazione di cui si è così a lungo parlato? Quindi, il sistema industriale è ancora ampiamente dipendente dal sistema bancario, come dimostrano i bilanci di società anche di grande dimensione e questo ci fa concludere che i due mondi sono in realtà le due facce diverse di una stessa medaglia. Semmai, resta aperto il problema della razionale distribuzione del credito fra grandi imprese e P.M.I.

2.3.ii Rapporti nei servizi finanziari

 

Il pluralismo dei canali di reperimento dei capitali (fonti) consente all’impresa industriale una nuova sensibilità verso il passivo e ciò spiega l’importanza del liability management. Ma l’aumentata importanza dell’attività finanziaria dell’impresa introduce anche la necessità di una attenzione maggiore alle operazioni in strumenti “derivati”: future e option di vario tipo, nella loro funzione di copertura o riduzione dei rischi d’impresa [7]. Si tratta di operazioni che affidate ad abili venditori bancari consente loro di sostenere che la riduzione dei rischi può permettere incrementi nei livelli di indebitamento e dell’effetto leverage e di conseguenza, come vorrebbe il modello Modigliani-Miller, un incremento del valore dell’impresa. Analisi a posteriori portano a opposte conclusioni.

2.3.iii Un ponte sui disallineamenti

 

In relazione ai rapporti banca-impresa non finanziaria, si può esprimere una considerazione critica:

nella storia economica il sistema bancario si è sempre adattato alla evoluzione del sistema produttivo, tant’è che le banche radicate in territori al alta intensità industriale non avevano le stesse caratteristiche di quelle operanti nelle aree agricole, come, peraltro, è facile constatare dalle denominazioni sociali e dai marchi bancari sopravvissuti all’ondata di merger-mania. Ma da alcuni anni il sistema bancario sembra prescindere da certe premesse o da certi rapporti causa-effetto. Quindi, al disallineamento sui tempi all’interno dei processi gestionali dell’impresa industriale, di cui si è prima discusso, si aggiunge un disallineamento tra la banca e l’impresa industriale. Anche questo disallineamento è conseguenza della irruzione che la finanza ha compiuto nella economia della banca. Il fenomeno, appunto inevitabile e irreversibile, deve essere tenuto presente dall’impresa industriale, non perché sia venuto meno il flusso quantitativo del credito all’impresa industriale, ma perché è cambiato l’approccio banca-impresa. Se fosse il mondo del lavoro, diremmo che sono cambiate le “relazioni industriali”, ma, trattandosi di credito, diremmo che sono cambiate le “relazioni bancarie”. Cambiate, non abolite.

Il flusso delle risorse dalla banca all’impresa, se governato da una saggia e professionale selezione del credito è, da un punto di vista sociale, lo strumento più efficace per l’ottimizzazione delle risorse. Questo può farlo, in una certa misura anche la borsa. Ma, se consideriamo che il tempo è un fattore della produzione, allora la correzione del disallineamento dei tempi nell’impresa di produzione, può farla solo la banca. Questo è il motivo che consente di sostenere che, nonostante le “relazioni bancarie” siano cambiate, la funzione “ponte” tra impresa e banca deve continuare a essere un fulcro per l’economia reale, prima ancora che finanziaria.

3) Quale futuro ?

La condanna dell’imprenditore, che non lo fa dormire di notte, è quella che si potrebbe definire la “costrizione alla previsione”, cioè l’obbligo di prevedere.

La realtà non la può cambiare nessuno e allora consideriamo che chi riuscirà a prevedere oggi in termini più vicini alla realtà futura sarà il vincitore, magari per breve tempo, perché in economia, soprattutto della produzione, è necessario vincere tutti i giorni.

Ci vogliono anni per costruire una posizione di relativa sicurezza sui mercati, ma basta un giorno, un errore di strategia, una scelta sbagliata, insomma un attimo, per distruggere tutto. E il futuro? Il futuro sarà sempre più nervoso e volatile, sempre più difficile ma sempre più necessario da leggere.

Possiamo constatare che se l’azione è l’anima del presente, la previsione è l’anima del futuro, anzi, come si è detto, la previsione è un ponte tra il presente e il futuro. L’aver classificato il tempo come un fattore della produzione, implica che la previsione assuma un’importanza determinante nei processi di scelta in condizioni di incertezza e in questi rientrano le decisioni più importanti, che riguardano: strategie commerciali, riorganizzazioni aziendali e investimenti di lungo termine.

Dobbiamo richiamare la definizione di “previsione” data all’inizio, come capacità dell’imprenditore di “gestire il tempo”, interpretando ragionevolmente lo scenario del futuro.

Dopo una lunga epoca in cui il massimo impegno intellettuale è stato dedicato allo studio del passato, cioè alla storia, sembra venuto il momento di dedicare risorse intellettuali allo studio del futuro, cioè alla previsione, che, però, non può prescindere dal passato. Previsione come insieme coordinato di ipotesi, non profezia. Si ricordi che l’economia ha i caratteri della autoreferenzialità e autorealizzazione e spesso ciò che è previsto accade perché lo facciamo accadere. Questo non perché lo voglia un singolo, ma una pluralità, che influisce sulla massa. Pensiamo agli indici di misurazione del grado di fiducia delle famiglie consumatrici sull’andamento del ciclo economico.

Comunque, la “previsione” non è la “decisione”, l’impulso finale che il manager impartisce per dare inizio all’azione. È in questo momento finale e decisivo, proprio perché decisionale, che si constata l’insostituibile funzione dell’uomo. Delegare al computer anche la fase decisionale è un rischio incalcolabile; bastino due esempi: la guerra del Vietnam, il cui coordinamento strategico era in mano a McNamara, pare sia stata delegata in momenti cruciali al computer; il famoso “lunedì nero”, che segnò il crash di Wall Street nel 1987, pare sia da imputare a programmi adottati da fondi e operatori finanziari statunitensi, programmi che, essendo pressoché uguali, hanno emesso ordini di vendita “in automatico” nello stesso momento, creando un effetto moltiplicativo al ribasso.

L’uomo non può delegare le sue responsabilità e il suo calice resta solo suo, trasformandosi in brindisi nel momento del successo e in veleno in caso di sconfitta.

Quindi, la previsione cammina a fianco della decisione e questa ha dentro di sé l’alea. Per questo fare l’imprenditore è in un certo senso pratica di uno sport molto pericoloso, riservato a soggetti, che godono a darsi scariche di adrenalina. Chi si ferma è perduto, slogan che merita di sopravvivere al suo inventore, perché l’anima del mondo attuale l’ha disegnata l’artista, che ha il senso del movimento e della velocità. Guardiamo con attenzione il bronzo di Umberto Boccioni, Forme uniche della continuità nello spazio: lì è riprodotta l’economia attuale, con tutto il nichilismo “attivo”, che è il suo sistema cardiocircolatorio, anche se in molti casi la raffigurazione più vera la si può vedere nella inquietante incisione di Albrecht Dürer: Il cavaliere, la Morte e il Diavolo. Il cavaliere guarda diritto e prosegue, non frenato dalla morte, né dal diavolo. Ma guardare camminando vuol dire tendere al futuro, l’unica coniugazione del verbo consentita all’imprenditore, sia esso banchiere o industriale, talvolta anche calpestando la razionalità, o, in altri termini, facendo funzionare il signor “naso” prima del “cervello”, che impiega più tempo a mettersi in moto.

Il filosofo Umberto Galimberti scrive in un articolo del 1994 [8]: «…L’economia è l’espressione più concreta e rigorosa della razionalità dell’Occidente. Il suo incedere è deciso più dalla tecnica che dalla politica. Destra e Sinistra oggi significano maggiore o minor aderenza al dettato economico, maggiore o minor aderenza a quel “Trattato sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioniche Adamo Smith scrisse nel 1776. » Forse il giudizio è troppo generoso, perché è immeritato e l’economia non è il regno ultimo della razionalità. È una fortuna: vuol dire che a questa disciplina è rimasto qualcosa di umano, che è poi la tesi di Paul Krugman, brillante economista del MIT e scrittore ricco di humor, che in uno dei suoi ultimi fortunati libri Il ritorno dell’economia della depressione, scrive: «Non fidatevi mai di un progettista di aeroplani che si rifiuta di giocare con i modellini », che è come dire « Non fidatevi di un manager che non gioca con le barchette di carta » e forse sottintende un consiglio agli imprenditori: se volete assumerlo, assicuratevi che abbia ancora la voglia di leggere i fumetti di Walt Disney.

Pietro Bonazza


[1] Si potrebbe obiettare che, se il tempo è un fattore della produzione per la sua scarsità, deve avere come corollario una remunerazione. A mio avviso la remunerazione del fattore tempo è il “non fallimento” dell’operazione decisa nell’ambito della strategia ed è remunerazione che può essere valutata in termini economici. Il suo valore è pari a “quanto sarebbe stato il costo della dispersione di risorse, se l’operazione fosse fallita a causa di intempestività, ma si potrebbe aggiungere: anche di eccessivo anticipo. La storia economia è piena di fallimenti di intraprese premature. Allora, si può concludere che in economia il “tempo” si accorcia sempre più e questa è l’angustia dell’imprenditore e la causa di certe sue alienazioni e depressioni, ma la riduzione deve essere quella del prevedibile e non del profetico. Il tempo in economia più che un chronos è un kairos, cioè una “giusta dimensione” come dicevano i greci, determinabile in relazione al momento attuale, poiché tutto è relativo.

[2] Questa considerazione, sviluppata sul dualismo vincitore-vinto, sembra in contraddizione con il metodo triadico hegeliano, che pone la sintesi come conclusione di tesi e antitesi. Ma si deve riconoscere che sul mercato il vincitore, nel momento della sconfitta dell’avversario, non è più lo stesso del momento iniziale, nel senso che nella durata della contesa, ancorché pacifica e leale, ha saputo con più rapidità evolversi in rapporto alla dinamica del mercato, sicché alla fine si può dire che è economicamente diverso dall’iniziale. La capacità di adattamento del vincitore pare una dimostrazione di capacità evolutiva darwiniana. In realtà è più propriamente una capacità di interpretare la dimensione vera del tempo economico.

[3] Jeffrey Sachs, Vedere lontano, in “Il Sole-24 ORE”, 29.6.2002, pag. 1.

[4] ALM è anche inteso come un programma informatico ad alta sofisticazione, che riproduce con il metodo Monte Carlo una serie di situazioni prospettiche impiegando la matematica probabilistica e il concetto della simulazione (what if ).

[5] A. Mosconi-E. Rullani, Il gruppo nello sviluppo dell’impresa industriale, Ed. Isedi, Milano, 1978.

[6] P. Bonazza, Fiducia e solidarietà sono beni economici, in “ItaliaOggi”, 17.8.1994, pag. 4.

[7] G. Bison-L. Pelizzon-D. Sartore, La copertura dei rischi finanziari nelle imprese non finanziarie italiane attraverso gli strumenti derivati, in “Moneta e Credito”, marzo 2002, n. 217.

[8] U. Galimberti, Per costruire un simbolo ci vuole un senso, in “Il Sole-24 ORE”, 23.1.1994