In altre formazioni politiche volano gli stracci, nel PDL volano i coltelli e alcuni contendenti rischiano di morire politicamente ammazzati, merito soprattutto della terza carica di questo strano stato, la quale ha scelto di passare dalla guerra alla guerriglia. Capita, quando si dimentica il senso dell’aggettivo “istituzionale” e si preferisce la bassa cucina della politica politicante, praticata anche dalla cosiddetta opposizione, che interpreta la propria funzione, pure istituzionale, come una gara di pettegolezzo, gossip e scoop fantasiosi di media più interessati a pagare prezzi e riscuotere riconoscenze che a svolgere la funzione di oggettiva informazione. Il rischio di non capirci più nulla è elevato e, soprattutto, di non interpretare quello strano soggetto politico che si chiama Fini, il cui destino, sua sponte, è irrimediabilmente segnato, comunque vadano le cose. I fatti e misfatti quotidiani sono arcinoti, perché tengono le prime pagine di giornali e telegiornali, con dibattiti che, alla fine, lasciano il vuoto, non ponendo la domanda fondamentale: perché succedono questi scontri tra la stragrande maggioranza di un partito e la  minoranza interna? Una risposta plausibile potrebbe essere questa: esistono due cause, una generale e risalente e un’altra personale attuale. Alcuni media interpretano quest’ultima come una manifestazione finalmente chiara dei limiti politici e caratteriali dell’on. Fini, che da tempo si era messo in testa alcuni obiettivi personali e, non vedendoli realizzati e rendendosi conto che forse sono irrealizzabili, ne è rimasto deluso. Si sa che la ripicca e la guerriglia possono essere figlie della delusione. Bisogna essere dei veri signori per saper accettare la sconfitta con aristocratica superiorità, però non è da tutti. Ma l’autostima delusa del Fini non può spiegare da sola il fenomeno, che, invece, è più generale: la prima causa. Senza risalire ab ovo, ma solo tratteggiando uno scampolo di storia, dobbiamo ricordare che la rivoluzione scientifica galileiana del Seicento ha generato l’Illuminismo, che gettò le basi del primato di una scienza matematizzata e oggettiva rispetto al soggettivismo e individualismo ancora insito nel cogito cartesiano. Ma alla luce bianca e fredda della lampada al neon dell’Illuminismo, l’uomo preferisce quella calda e rossastra del camino. La reazione fu il Romanticismo, che, però, oltre a rilanciare l’uomo con tutto il bagaglio delle passioni individuali e soggettive, avviò un processo di “soggettivismo nazionale”, per usare un quasi ossimoro. Il senso della nazione trovò amplificazioni ed esaltazioni nel Romanticismo, che generò i risorgimenti, creò le nazioni, contro il cosmopolitismo illuministico, ma fu anche il fuoco che alimentò le guerre mondiali successive. Ci si sarebbe aspettato una rovesciamento radicale rispetto alla fredda ideologia settecentesca. Invece, almeno nella provetta della psicologia sociale i due movimenti si miscelarono e nel laboratorio della storia si realizzò un’inevitabile reazione chimica: il “secolarismo”. In Italia la cultura del Risorgimento, con la classe dirigente che ne aveva assorbito i caratteri fondamentali, durò fino agli anni cinquanta del Novecento, con un partito di opposizione, il comunista, che si rifaceva a valori di estrazione più leninista che marxiana, però ben monolitico, da una parte e la democrazia cristiana dall’altra, che, pur con alleati laici, riteneva di radicare i propri ideali nel cattolicesimo. Ma il secolarismo, che aveva attaccato prevalentemente la chiesa cattolica, dilagò anche nei partiti e si manifestò con perdita del senso di organicità politica, del principio di autorità, della priorità degli obiettivi comuni a vantaggio di quelli particolari, quasi personali. Nella democrazia cristiana nacquero le correnti, che ridussero, in sostanza, il partito a una confederazione di partiti, uniti nell’obiettivo della detenzione del potere. Le correnti alimentarono il sottobosco politico, la dilatazione della spesa pubblica, la gara a un welfare sfrenato e sganciato dalle reali possibilità della pubblica economia. Di contro il partito di opposizione, merito di una ideologia più monolitica ed egemone, resisteva meglio e, lasciando il potere apparente al partito di governo, si impossessava dei gangli vitali del paese. Scrisse qualche decennio fa l’aforista colombiano Gómez Dàvila, sicuramente non di sinistra: «Dopo secoli di sbornia demagogica, almeno il comunismo restaura la buona coscienza dell’autorità

Ma il secolarismo è una forza pianificatrice certa come la morte. A cadere non fu il muro di Berlino, ma a vincere fu il secolarismo, che aveva eroso dall’interno la fonte del potere unitario e così entrò in crisi anche la periferia del sistema, persino in Italia dove era sopravvissuto il più forte partito comunista d’Europa. Per circostanze strane, spiegate con la necessità di difendersi dall’assalto di certa magistratura, un tycoon milanese del mattone e delle antenne televisive si affacciò alla politica e, presone gusto, passò dalla  difesa all’attacco. Da uomo di azienda pensò che la politica non può essere diversa dall’impresa, per condurre la quale con successo ci vuole unitarietà, piglio decisionista e senso del comando, cioè una specie di contrasto con gli esiti del secolarismo, ma limitato al mondo dell’organizzazione e della governante delle imprese. Nacque il bipolarismo, che, data la giovane età e la mancanza scontata di consolidamento, dovette reggersi e si regge con alleanze, come nei patti parasociali e i gentlement’s agreement del mondo societario. Naturalmente, come nelle aziende, occorre un valido direttore, che pur sbagliando talvolta, decide con rapidità e determinazione. La democrazia, se di vera democrazia si tratta, degli Stati Uniti, pare rappresentare un modello di riferimento, almeno per quanto riguarda l’inesistenza permanente e organica di partiti, che, invece, si presentano nella sola fase elettorale. In un tale sistema i partiti sono messi in frigorifero tra una elezione e l’altra, ma sono subito rimpiazzati dalle lobby, che hanno anche il difetto della trasversalità. Il guaio in Italia è che esistono sia i partiti permanenti sia le lobby. Il Berlusconi, proprio per la sua origine di uomo di azienda, ha capito che la partitocrazia può diventare nemica di un buon sistema di governo e questo spiega la sua avversione al partito come apparato e alle correnti che rappresentano l’aspetto deteriore. Che ci sia o no una fiducia accentuata nei propri mezzi non ha grande importanza; importante osservare che l’idea di fondo è: in un’impresa che voglia avere successo occorre un solo direttore generale, meglio se proprietario; gli altri stanno agli ordini, li eseguono e se piace va bene se no levano il disturbo. Questo è il credo del Berlusconi ed è quello che non ha capito il politicamente fragile e poco intuitivo Fini, il quale ha dimostrato di non saper interpretare nemmeno il ruolo che il momento storico poteva riservargli e la proiezione nel futuro, visto che anche i direttori generali invecchiano e passano, soprattutto se hanno una ventina d’anni in più. Invece, la scarsa avvedutezza o ancor più il fascino del potere personale immediato gli hanno fatto accettare la carica di Presidente della Camera, non capendo che istituzionali sono le funzioni e non gli uomini che pro-tempore occupano lo scranno. Quella carica può attagliarsi a una Pivetti destinata a fare la meteora o a un buon nonno a fine carriera come il Bertinotti, non a chi vuol fare politica attiva quotidiana.

La scena di questi giorni è una specie di confronto-scontro, di cui nella memoria collettiva resta una figura impappinata che alza l’indice in tono perentorio, accusatorio, didascalico e minacciosamente vendicativo, ma per i toni patetici, fa quasi rimpiangere il pugno chiuso dei trinariciuti di Guareschi o l’indice di un Bossi, dai tratti poco fini.

Fini sembra non aver capito che il secolarismo lo ha travolto prima e, in un ritorno berlusconinano a un principio di autorità e organicità, lo ha addirittura cancellato poi. Berlusconi e Fini hanno in comune un ritorno al principio di autorità, ma il punto di un vertici è geometricamente unico e può essere anche solo temporaneo. Sparito il decisionista, il sistema cesserà di essere unitario e il secolarismo disgregatore tornerà a essere vincitore. Berlusconi lo sa e, forse, anche Bossi. Fini no e non gli giovano applausi ingannevoli e ipocriti della sinistra sconfitta, che, seppur dopo gli altri partiti, sta provando sulla propria pelle la caduta dei principi di autorità e centralità.

I media si chiedono Fini se si avvarrà della sua carica istituzionale per mettere in crisi l’avversario di partito. In un primo tempo può darsi, ma poi dovrà arrendersi, perché il presidente non è la Camera, ma solo un direttore d’orchestra. Viene in mente lo spettacolo pietoso dell’ormai sordo Beethoven, che non si accorgeva che l’orchestra stava suonando senza seguire la sua bacchetta direttoriale. Ma Fini non è Beethoven e non meriterebbe  certo la pietà dovuta ai geni. Soprattutto il Fini non ha capito che in politica i voti si contano e non, come proclamava Cuccia, si pesano e i numeri danno ragione a Berlusconi e a Bossi, piaccia o no.

D’altra parte, se i numeri non contassero, saremmo alla esautorazione totale della maggioranza del popolo, che già dimostra insofferenza, come dicono le più ridotte affluenze alle urne.

Ora, da uomo della strada, o del popolo se più piace, auspico per il bene del Paese che, comunque vadano le cose, si risolva tutto al più presto e chi vince o ha vinto sia in sella e chi perde, se non vuol fare lo stalliere, vada a casa.

La conclusione è però interlocutoria, perché il secolarismo devasta gerarchie, valori e consolidate istituzioni. È urgente sostituire le regole della attuale democrazia, che è solo un fascio di contraddizioni.