1) Conoscenza, competenza e temporalità.

È intuitivo, anzi è nel comune buon senso che la conoscenza, da sola, non basta, perché è necessario anche stabilire “quando” si conosce o si può conoscere. Il mondo del diritto positivo, civile, penale e tributario in particolare, regge sulla constatazione del “conoscere quando”.

La moneta, con la conoscenza su una faccia e con il momento del conoscere sull’altra, è il fondamento dell’art. 74, comma 1, nel DPR 29.9.1973, n. 597 e del suo clone art. 75, comma 1, nel Tuir 22.12.1986, n. 917, riprodotto senza variazioni nel comma 1 dell’art. 109 del D.Lgs. n. 344/2003 sull’Ires. La norma fiscale afferma che costi e ricavi «…di cui nell’esercizio di competenza non sia ancora certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare concorrono a formarlo nell’esercizio in cui si verificano tali condizioni ». È noto che il legislatore tributario del Tuir 917 ha fatto una scelta fondamentale: la certezza quantitativa degli elementi dell’imponibile, come si constata anche dall’introduzione di meccanismi automatici [per esempio: manutenzioni 5% (art. 102, comma 6, D.Lgs. n. 344/2003); art. 81 (ora 67 del D.Lgs. n. 344/2003), che, rispetto al 76 del 597/1973, perde l’animus speculandi, ecc.] e dall’abbandono di norme definitorie (per esempio: la definizione di “reddito”) [1], così creando un diritto “casistica” [2], in nome di una presunta maggior “certezza del diritto”. Si è sempre ritenuto che l’art. 75 si iscriva in questo contesto fondamentale. Pertanto, la sua comprensione non ha nemmeno bisogno di interpretazioni sistematiche, anche perché già quella grammaticale è congruente. Cosicché, quando si legge che di un fatto (costo o ricavo) devono sussistere le due condizioni della conoscenza dell’an e del quantum, si deve immediatamente e direttamente collegarla alla locuzione “nell’esercizio di competenza“, cioè al momento temporale della conoscenza. Il legislatore avrebbe potuto usare un’espressione affermativa del tipo “si devono iscrivere i costi e i ricavi nell’esercizio di competenza”; invece ha preferito usarne una indirettamente negativa, per rendere più incisiva la volontà e l’art. 75 si deve leggere: “non si possono iscrivere i costi e i ricavi nell’esercizio di riferimento, se non si conoscono con certezza l’an e il quantum, perché in tal caso la competenza si sposta a un successivo esercizio, in cui possa dirsi possibile la corretta conoscenza”. Quindi, la competenza segue la conoscenza e non viceversa e il momento è da individuare “nell’esercizio“, che vuol dire in quel dato esercizio, non in altri, ma soprattutto significa che la conoscenza deve verificarsi “entro la fine di un periodo”. Soccorre, a tal fine, l’art. 90, comma 2, del Tuir, che recita: « Il periodo d’imposta è costituito dall’esercizio o periodo di gestione della società determinato dalla legge o dall’atto costitutivo ». Quindi, la conoscenza del costo o del ricavo deve avverarsi entro il termine di scadenza del periodo d’imposta. È chiaro che l’art. 75 non è norma che effettua rinvii formali o recettizi ad altre norme o a definizioni di discipline economiche, perché rappresenta un caso significativo di definizione specifica e autonoma del diritto tributario e non contano disposizioni del codice sul bilancio civilistico o principi contabili o altro.

Ci si deve chiedere, a questo punto, quale interpretazione è stata data dalla Corte di cassazione sull’art. 75.

Due sono i problemi:

a) il significato dell’aggettivo “certa”;

b) il significato della locuzione “nell’esercizio”.

2) Conoscenza e probabilità secondo la Corte di Cassazione

È evidente che se si toglie all’art. 75 TUIR 917/1986 l’elemento certezza, si scivola automaticamente nella “probabilità” e si apre il problema della compatibilità tra i due concetti, che si collegano anche al tema della probabilità nel processo civile in applicazione dell’art. 2727 cod. civ. e, in parallelo, nell’accertamento nel diritto tributario. Si può sostenere che probabilità e certezza non sono termini congruenti nel diritto, ma, se accostati, costituiscono insanabile contradictio in adiecto. L’art. 75 TUIR 917/1986 è senz’altro norma speciale e autonoma, anzi è una “categoria” del diritto tributario, che ha come ratio proprio il superamento di incertezza, cioè una base non probabilistica. Se ci si deve riferire a un evento, per esempio al deposito di una sentenza, non si può contabilizzarlo entro il 31 dicembre di un esercizio sull’ipotesi che il dispositivo sarà probabilmente favorevole o contrario. O è l’uno o è l’altro e deve esserlo entro il 31 dicembre, diversamente sarà di un esercizio successivo.

La Cassazione sembra orientata a dare all’art. 75 un’interpretazione testuale e di tale posizione ci si deve solo compiacere, perché il rigore interpretativo è il fondamento della certezza del diritto, di particolare importanza nel campo tributario, ove i due attori: contribuente da una parte e Fisco dall’altra agiscono sugli stessi oggetti, ma in tempi diversi. Invece, quando si tratta di interpretazione dei fondamenti o dei limiti del potere di accertamento (l’art. 39 DPR 600/1973, distingue al 1 e al 2 comma il sintetico dall’analitico) la Cassazione diventa più incerta e nelle motivazioni delle sentenze fa ricorso ormai consolidato al principio di probabilità soprattutto sul comma 2. Ora, se tale flessibilità può rientrare nelle innegabili evoluzioni del pensiero giurisprudenziale quando si riferisce all’accertamento sintetico-presuntivo consentito dal comma 2 dell’art. 39, in quanto norma derogatoria del principio generale e con evidente intento sanzionatorio nei confronti del contribuente, non sarebbe, invece, più condivisibile quando si versa nei casi dell’accertamento analitico previsto nel comma 1, per il quale l’Amministrazione finanziaria deve contrapporre a singoli elementi dichiarati, simmetrici e motivati elementi accertati. Per esempio: se l’imprenditore ha esposto un costo nel conto economico dell’anno x, ritenendo di fare corretta interpretazione dell’art. 75, comma 1, Tuir 917, e l’Amministrazione contrappone la competenza nell’esercizio (x+1), deve farlo sempre in riferimento all’art. 75 rispettando i due principi di certezza e oggettiva determinabilità, cioè con esclusione del ricorso alla presunzione, che si fonda sulla probabilità. Sembra un’osservazione banale, ma non sempre è seguita dalla Cassazione; per esempio non sembra applicata con completa coerenza nella sentenza 4 settembre 2002, n. 2002.

In termini fiscali: non sarebbe logico che i principi di certezza e oggettiva determinabilità applicati al fatto amministrativo y siano rigorosamente inderogabili nell’anno x e possano diventare annacquati dal concetto di probabilità, per esempio quattro anni dopo, quando il Fisco contrappone un accertamento alle interpretazioni fatte dal contribuente in relazione ai fatti alla chiusura del quarto esercizio anteriore, perché rischia di costruire un collegamento, seppur indiretto, tra certezza e oggettiva determinabilità richieste dall’art. 75 e la presunzione posta a base di un accertamento, vietata soprattutto se analitico-contabile, dell’Amministrazione finanziaria.

Ora, sappiamo che in pratica l’Amministrazione finanziaria arriva sempre con accertamenti a distanza di anni dalla chiusura dell’esercizio, quando i fatti, allora solo previsti, sono poi accaduti. La regola seguita, piaccia o no, è quella non della corretta interpretazione, ma della massimizzazione del gettito in barba a giustizia e logica. Pertanto l’Amministrazione tende a spostare la competenza, avanti o indietro, secondo l’estensione temporale del ventaglio di esercizi che intende rettificare. Il vantaggio di arrivare a “cose accadute” la avvantaggia, come se si disegnasse il cerchio sul bersaglio dopo che la freccia vi si è conficcata o Guglielmo Tell avesse infilzato la mela prima di appoggiarla sulla testa del figlio!

Questo fenomeno accade frequentemente ed è senz’altro negativo, ma non si corregge prolungando l’esercizio. L’unica correzione, a meno di interventi legislativi non facilmente prevedibili, è in un diverso impiego del concetto di presunzione basato su probabilità, che allo stato attuale della giurisprudenza della Cassazione, scardina, almeno in alcuni casi, anche il sistema dell’art. 75.

Il rischio di un’applicazione non speculare contribuente-Fisco è che, mentre la certezza non si esprime in termini di valore, perché è un dato di fatto (o è o non è), la probabilità deve essere calcolata e, allora, si entra nell’elasticità, anzi nella discrezionalità dell’interpretazione. Ora, si potrebbe obiettare che tutto il mondo è interpretazione, secondo l’opinione dei filosofi ermeneutici, e che anche la certezza è, alla fine, interpretazione. Ma non è questa la lettura da riservare alla volontà del legislatore, anche perché il relativismo, che scivola nello scetticismo, è estraneo al mondo del diritto positivo. Non si può dire: è probabile che l’art. 75 significhi così o altrimenti. La norma di diritto positivo, diversamente dal diritto naturale, è quella testuale, che noi leggiamo in una Gazzetta Ufficiale. Se non va bene, si cambia, ma non si può deformare in via interpretativa, lasciandola intatta.

L’eventuale possibilità di un ricorso alla presunzione da parte dell’Amministrazione finanziaria, contro l’obbligo di certezza a carico del contribuente si manifesta nell’attività di accertamento, ciò che porta alla necessità di un raccordo tra l’art. 75 Tuir 917/1986 con l’art. 39 del D.P.R. 29.9.1973, n. 600, che, si noti, non dà definizioni [3].

Il Comando della Guardia di Finanza ha diramato la Circolare 20.10.1998, n. 1/98 in sostituzione della precedente 30.4.1977, n. 7/1496, ma come nella abrogata non ha chiarito in termini sufficientemente espliciti il divieto del ricorso alla presunzione per l’accertamento analitico-contabile applicato alla lettera a) dell’art. 39, comma 1, DPR 600. Si legga il passo del capitolo 1.2: «…l’accertamento analitico è quello che fa riferimento alle singole componenti attive e passive che concorrono alla formazione del reddito d’impresa o di lavoro autonomo. Esso può essere “contabile” o “extra-contabile”: il primo presuppone che la contabilità, nel suo complesso, sia considerata attendibile, ragion per cui la rettifica involge singole risultanze del reddito accertate mediante prove dirette alla incompletezza, falsità o inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione o nella inesatta applicazione della normativa fiscale; il secondo supera la formale attendibilità delle scritture contabili mediante presunzioni che il legislatore qualifica solo in via generale (richiedendo che siano gravi, precise e concordanti), senza tuttavia definirle in via casistica…». Ci si chiede se nel caso di “inesatta applicazione della normativa fiscale” (per esempio: un caso di competenza di un costo in base all’art. 75 Tuir 917/1986) il verificatore possa avvalersi di presunzioni. Il circolarista non lo esclude, cosicché nel dubbio il verbalizzante se ne avvarrà e poiché è invalsa la prassi della acriticità da parte degli uffici, l’interpretazione del verificatore diventerà quasi sempre un accertamento ob relationem, con il seguito di iscrizioni a ruolo in via provvisoria . Invece, non dovrebbero esserci dubbi sulla esclusione della presunzione nel caso di specie. Infatti, logica vuole che, quando si tratta di interpretare un fatto dichiarato o non dichiarato per interpretazione dei principi di certezza e determinabilità oggettiva, la presunzione rimane esclusa e anche l’Amministrazione deve attenersi all’art. 75. Da qui la domanda: come si è regolata la Cassazione sul problema? Come si vedrà nell’analisi della sentenza n. 12831/2002 nella parte riguardante l’esercizio di competenza dei contributi Aima, ha dato risposta molto rigorosa e ha escluso presunzioni, anzi ha affermato la determinante importanza del decreto di liquidazione, non accontentandosi di un provvedimento anteriore di assegnazione.

Lo stacco temporale tra contabilizzazione del fatto amministrativo da parte del contribuente e accertamento dell’Amministrazione finanziaria è rilevante per valutare il grado di coerenza interpretativa della sentenza n. 12831/2002, con cui la Corte di cassazione ha risolto due problemi concernenti l’esercizio di competenza, riprendendo in termini più analitici osservazioni già sopra espresse:

a) per la contabilizzazione dei contributi Aima;

b) per lo scarico a perdita dei crediti verso imprenditori falliti.

Sul primo la Corte ha stabilito che è competente l’esercizio “in cui è emesso il relativo decreto di liquidazione”. Con questa affermazione è data all’art. 75 l’interpretazione più rigorosa, nel senso che per la Corte non basta conoscere, anche per altri documenti ufficiali, che il contributo sarà “certamente” erogato, ma è necessario che sia emanato l’atto ufficiale non del riconoscimento, ma della sua liquidazione.

Sul secondo, alla interpretazione del contribuente che le perdite per crediti verso fallimenti potessero essere dedotte anche successivamente all’esercizio di emanazione della sentenza di fallimento, l’Amministrazione finanziaria aveva reagito con un accertamento di rettifica, perché, a suo avviso, la deducibilità sarebbe ammessa solo alla condizione che le perdite risultassero addebitate contestualmente. Sul punto la Corte ha svolto considerazioni allo scopo di affermare che intendeva riportare la propria conclusione nell’ambito di una rigorosa lettura dell’art. 75. A tal fine la Corte interpreta che il regime precedente al DPR 917, irragionevolmente rigido per non riconoscere l’elevato tasso di improbabilità della realizzazione dei crediti caduti nello stato fallimentare afferma che: «…non v’è ragione di escludere aprioriasticamente la possibilità che l’apprezzamento di tali elementi consenta di individuare i requisiti di certezza e di determinabilità della perdita, con riguardo a un esercizio diverso da quello nel quale la procedura concorsuale si è aperta». Per fare questa affermazione la Corte si ricollega al bilancio civilistico e prosegue riconoscendo che: « All’interpretazione qui respinta – diretta a sostituire un criterio, ritenuto irrazionale per la sua rigidezza, con quello opposto, non meno rigido e per ciò non meno irrazionale – mancherebbe il sostegno del criterio ermeneutico della (pur solo) tendenziale unità dell’ordinamento giuridico, mentre a giustificazione della supposto specificità – in subiecta materia – della disciplina tributaria non soccorrerebbe una base testuale». L’interpretazione del pensiero della Corte non è semplice, ma sembra corretto ritenere che la sua traduzione in termini meno contorti possa essere la seguente: negare la deducibilità, come si faceva in passato, è rigido e irrazionale, ma anche affermare la necessità di una condizione di deducibilità solo nell’esercizio di apertura della procedura sarebbe altrettanto rigido e irrazionale e non coerente con l’art. 2426, n. 8, cod. civ. sulla iscrizione dei crediti in base al “presumibile realizzo”; perciò – e questo è il punto – non costituendo l’art. 66 una deroga al 75, la Corte conclude che: «…la perdita sui crediti non deve essere contabilizzata necessariamente e per intero nel periodo di esercizio in cui la procedura concorsuale si è aperta». Che l’art. 66 non deroghi l’art. 75 e che questo debba essere posto in coerenza con l’art. 2426, n. 8, cod. civ., sono affermazioni che lasciano più che perplessi, oltre a scardinare principi fondamentali dell’autonomia, se proprio non si vuol dire specialità, del diritto tributario, perché è ovvio che il ragionamento della Corte porta a subordinare l’art. 75 ad altre norme, così negandone la specialità. Non si comprende nemmeno il bisogno di costruire tesi di quel tipo, quando basta affermare che l’art. 66 detta, in tema di perdite su crediti fallimentari, una regola speciale, derogatoria dell’art. 75, che è norma generale. Ma ciò che più sconcerta è l’ultima affermazione della Corte, che sente il bisogno di precisare che la non necessità di uno scarico totale e immediato del credito: «…non autorizzerebbe la conclusione che sia possibile scegliere il periodo di esercizio, tra quelli posteriori all’apertura della procedura concorsuale, in cui dedurre la perdita, rimanendo al contrario sovrana la volontà della legge che si esprime nella regola posta dall’art. 75, comma primo D.P.R. n. 917/1986 ». C’è da chiedersi se l’estensore abbia mai constatato come si svolge in concreto una liquidazione fallimentare. Non c’è dubbio che il lettore sia esposto al rischio di contorcimenti cerebrali per poi non cavarne nulla, perché non si può buttar via il bambino con l’acqua sporca e poi pretendere di recuperare il liquido disperso, magari pulito. Quanto al bambino…!

Come si è notato, per la Cassazione l’art. 66, comma 3 (perdite sui crediti fallimentari) rientra nell’art. 75, ma con questa ipotesi non si può più sostenere, senza cadere in contraddizione, che i crediti verso il fallito si possono scaricare tutti nell’esercizio di emanazione della sentenza e dire poi che, passata quella occasione, si deve rispettare negli esercizi successivi l’art. 75 nei suoi principi di certezza e oggettiva determinabilità. Infatti, in tal caso, o la soluzione è contraddittoria con l’art. 75, comma 1, o l’art 66, comma 3, è norma inutiliter data. Allora, tanto varrebbe affermare che, come per l’IVA, lo scarico a perdite può avvenire solo a procedura ultimata, perché solo così si realizzano certezza e oggettiva determinabilità; prima è impossibile, perché un curatore fallimentare non attesterebbe mai in modo formale, se non in casi del tutto eccezionali, che in un futuro più o meno lontano distribuirà il tot % ai crediti chirografari e a chiusura della procedura, unico modo, se si vuol rispettare l’art. 75, comma1, per consentire all’impresa creditrice di scaricare a perdite la parte di credito che risulterà in futuro insoddisfatta.

Se pensiamo alla probabile origine del pensiero della Corte, possiamo constare che il “principio di certezza” dell’art. 75 è stato in realtà sostituito da un principio di probabilità e per evitare di affermare tutto e il suo contrario l’unica soluzione accettabile sul piano logico sarebbe stata di lasciar fuori dalle argomentazioni proprio quella norma. Infatti, la conclusione della Corte può stare in piedi, più o meno barcollante, se il tentativo di soluzione del problema rimane nel solo ambito dell’art. 66.

3) Conoscenza e temporalità secondo la Corte di Cassazione

Ancor più difficile è l’interpretazione del pensiero della Corte in tema di temporalità, come si legge nella sentenza 27 febbraio 2002, n. 2892, in cui afferma il principio che la norma, che definisce la competenza impone di “conteggiare” costi e ricavi nell’anno di riferimento, poiché il “dovere si arresta soltanto di fronte a quei ricavi ed a quei costi che non fossero ancora noti all’atto della determinazione del reddito e, cioè al momento della redazione e presentazione della dichiarazione.» Questa affermazione, che peraltro mette insieme “redazione” (momento giuridicamente irrilevante) con “presentazione”, è già di per sé inaccettabile, poiché in concreto dilaterebbe l’esercizio ad almeno 22 mesi contro il testo letterale dell’art. 74 DPR 597 e ora 75 TUIR 917/1986, che, come si è osservato, esige che la conoscenza debba riferirsi ai fenomeni conosciuti nell’esercizio determinato dal “periodo di gestione” (art. 90, comma 2); ma diventa ancor più improponibile se si considerano le seguenti argomentazioni portate dalla Corte a sostegno di tale sconcertante conclusione:

a) L’art. 74 (ora 75) mira: «…contemporaneamente a salvaguardare sia la necessità di computare tutte le componenti nell’esercizio di competenza che l’esigenza di non addossare ai contribuenti un onere troppo difficile da rispettare». Niente di più infondato: in primo luogo perché la norma non intende mescolare i fatti amministrativi in un unico fascio di competenza; anzi, la ratio è proprio di affermare un unbundling non di mescolare i fenomeni, se no risulterebbe persino inutile il concetto di “competenza”, che appunto significa distinguere ciò che “deve” appartenere a un momento temporale da ciò che deve essere conteggiato in altro e per distinguere diventa determinante, come si è visto, la “conoscenza temporale”. In secondo luogo, la norma non si preoccupa affatto di “non addossare ai contribuenti un onere troppo difficile”. E quando mai? Si deve anche osservare che l’unica preoccupazione di una norma tributaria, ma è un dovere, dovrebbe essere la “chiarezza”, perché diversamente – e seguendo proprio la Cassazione – si finisce per gravare i contribuenti di dubbi interpretativi ben più angosciosi di quelli generati dalla preoccupazione di aiutarli; a parte il rischio che questa preoccupazione applicata alla competenza temporale si risolva in una elasticità pro-fisco, molto comoda per l’Amministrazione finanziaria, che, operando accertamenti necessariamente a posteriori può sempre tirare l’elastico a suo comodo, come già si è prima notato. I contribuenti potrebbero pregare la Cassazione di non “sollevarli” da “oneri troppo difficili”, per evitare il rischio di schiacciarli ancor di più!

b) Il reddito imponibile delle società di capitali è quello desunto dal bilancio di esercizio soggetto ad approvazione da parte di un’assemblea salvo quanto stabilito dalle norme fiscali (artt. 95, comma 1, e 52 TUIR 917). Su questa premessa, ovvia e non discutibile, la Cassazione innesta l’art. 14 del D.P.R. 29.9.1973, n. 600, ma l’operazione pare non riuscita. L’art. 14 afferma al comma 4: « Le società e gli enti il cui bilancio e rendiconto è soggetto per legge o per statuto all’approvazione dell’assemblea o di altri organi possono effettuare nelle scritture contabili gli aggiornamenti consequenziali all’approvazione stessa fino al termine stabilito per la presentazione della dichiarazione », comma che, si noti, è riportato testualmente nella sentenza. Si fanno due osservazioni: gli aggiornamenti che un’assemblea può apportare alla proposta di bilancio degli amministratori non sono tutti quelli che riguardano una “conoscenza temporale” successiva alla chiusura dell’esercizio, ma una integrazione per dimenticanza o una correzione per interpretazione di criteri applicati negli assestamenti di formazione del bilancio. Per fare esempi: del primo tipo (integrazione per dimenticanza), l’assemblea chiamata ad approvare il bilancio dell’esercizio x constata che i compilatori della bozza di bilancio hanno omesso di considerare un ricavo per consegna di un bene già uscito dal magazzino prima del 31.12, ma fatturato nell’anno (x+1); del secondo tipo: gli amministratori hanno proposto la valutazione del magazzino con criterio FIFO, mentre l’assemblea preferisce un LIFO o anche: gli amministratori hanno proposto ammortamenti ordinari, mentre l’assemblea ritiene più coerenti aliquote più elevate. Sono questi gli eventi che, incidendo sul reddito imponibile e sul fondo imposte già calcolati sulla base della bozza, possono alimentare “nelle scritture contabili gli aggiornamenti” previsti dall’art. 14, ma si noti solo quelli “consequenziali” non altri, non quelli che potrebbero essere in violazione delle norme civilistiche sul bilancio e comunque nemmeno tutti, perché il conto finale bisogna sempre farlo con le norme tributarie e particolarmente con l’art. 75 TUIR 917/1986. Sarebbe troppo bello per essere vero, direbbe un evasore! Basterebbe che in una società a ristretta base i soci si mettessero d’accordo per correggere in diminuzione il reddito spostando costi venuti a conoscenza il giorno dell’assemblea nell’anno (x+1) nell’esercizio x, per ottenere un effetto desiderato. Non si può certo pensare che questo sia stato il pensiero dell’estensore della sentenza n. 2892, però è quel che si legge! Si consideri una vertenza per danni contro una società, relativa a un evento accaduto nell’anno x, il cui lodo arbitrale sia reso noto il giorno dell’assemblea tenuta in seconda convocazione nel maggio dell’anno (x+1). Non solo non sarebbe attribuibile all’esercizio x per l’art. 75 TUIR 917/86, ma nemmeno per le norme civilistiche sul bilancio! Si noti che queste argomentazioni riguardano ipotesi di fatti conosciuti entro la data di approvazione assembleare del bilancio – il che è già discutibile perché in contrasto con la locuzione “nell’esercizio” dell’art. 75, ma la Cassazione va oltre e confonde la possibilità di effettuare aggiornamenti nelle scritture fino al giorno di presentazione della dichiarazione, ma emerse entro il limite temporale della data dell’assemblea, con una possibilità di integrare il reddito imponibile con fenomeni venuti a conoscenza anche successivamente e fino al giorno di presentazione della dichiarazione, per “non addossare ai contribuenti un onere troppo difficile“!

c) Questo principio la Corte lo desumerebbe da altre due fonti: l’art. 9, comma 1, lett. b) del DL 69/1989 e la Sezione 7 della Direttiva CEE 18.7.1978 [4]. Sul rinvio alla prima fonte si deve osservare che non possono essere confuse le norme sulla presentazione della dichiarazione di soggetti in regime di contabilità semplificata con quelli che devono far approvare il bilancio da un’assemblea, perché così facendo la Cassazione contraddice se stessa, a parte la constatazione che il citato art. 9 fissa un termine per “annotazione” di fatti amministrativi e non deroga il principio di competenza e, quindi, il richiamo di tale norma è inconferente. Sulla seconda fonte si deve osservare che la Direttiva CEE richiamata ha per oggetto il bilancio civilistico e non quello fiscale e peraltro considera solo «…i rischi e le perdite anche tali rischi o perdite siano noti solo tra la data di chiusura del bilancio e la data della sua compilazione». Innanzi tutto si osserva che la Direttiva si riferisce solo a “rischi e perdite” e non anche a ricavi [5], inoltre la Direttiva in riferimento al bilancio si ferma alla “data della sua compilazione”. Ora: qual è la data di compilazione? Poiché il bilancio lo fanno gli amministratori, la sua “compilazione” precede di almeno trenta giorni la data dell’assemblea convocata per approvarlo! La data di presentazione della dichiarazione viene alcuni mesi dopo e sorge il dubbio che la Cassazione abbia confuso i due momenti.

d) La Cassazione cita anche la Circolare ministeriale 3.10.1979, n. 45/9/284. A parte l’inopportunità di tale rinvio, perché la circolare non è fonte di diritto [6], si deve anche osservare che il ministero ha anche compiuto un errore nel punto in cui afferma il: «…carattere dichiarativo e non costitutivo delle deliberazioni assembleari che riguardano l’approvazione del bilancio…». Innanzi tutto si osserva che, se le deliberazioni assembleari avessero natura meramente dichiarativa, non avrebbero alcuna rilevanza le correzioni e integrazioni al bilancio e la tesi di fondo della sentenza n. 2892 risulterebbe inconsistente; inoltre si ricorda che la tesi corretta e acquisita dalla Suprema corte sin dalla sentenza 16 aprile 1968, n. 1117, ritiene che il bilancio è il risultato dell’opera coordinata di tre organi (amministratori, sindaci e assemblea), che si conclude con l’approvazione e la pubblicazione. Cioè è un atto complesso a formazione successiva, che è in itinere fino al momento della sua approvazione da parte dell’assemblea, la cui opera non è dichiarativa, ma costitutiva, anche perché interviene come ultima fase conclusiva. Che poi si constati che la dichiarazione del reddito imponibile debba essere presentata in termini anche se l’assemblea non ha approvato il bilancio, non modifica la natura dell’atto assembleare, ma risponde solo a esigenze di gettito e riflette un’altra volta la natura speciale del diritto tributario.


[1] Non si può escludere che il codificatore del Tuir 917/1986 sia stato inconsciamente influenzato dalla massima del “Digesto”: «Omnis definitio in iure civili est periculosa».

[2] E. De Mita, Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 1987, pag. XII.

[3] L’impiego frequente e non sempre appropriato degli aggettivi: analitico e sintetico, induttivo e presuntivo, rettificativo contabile e rettificativo extracontabile, dopo il sostantivo “accertamento” riferito all’impresa richiede alcune precisazioni terminologiche, per poter isolare, infine, il punto centrale di questa analisi critica al pensiero della Cassazione. Si noti che nell’art. 39 del DPR 600/1973 il legislatore non enuncia alcuna delle categorie qui ricordate, che, pertanto, sono così qualificate solo dalla prassi e dalla dottrina.

1. L’analiticità e la sinteticità riguardano l’oggetto di riferimento da cui l’Amministrazione determina la misura del reddito imponibile, cioè al risultato finale si può pervenire in via analitica considerando le componenti (singoli costi e singoli ricavi) del reddito oppure in via sintetica (una misura di reddito che prescinde da enunciazioni di componenti).

2. L’induzione e la presunzione attengono, invece, al metodo, all’iter logico, ma non sono sinonimi. Il processo induttivo è un percorso logico con cui, partendo da una serie di manifestazioni concrete si risale alla definizione del fenomeno, nel diritto tributario: al valore del reddito imponibile dell’impresa. La presunzione, invece, riguarda un modo di impiego del processo induttivo, perché ipotizza che da un fatto o una serie di fatti noti (manifestazioni evidenti o evidenziabili) si possa risalire al fatto ignoto (valore del reddito). Nell’accertamento del diritto tributario il metodo induttivo, diversamente dalle scienze fisico-naturali che lo applicano a un numero possibilmente elevato di esperimenti, prende in considerazione un solo caso e perciò deve avvalersi della presunzione. Si potrebbe dire che la presunzione è lo strumento dell’accertamento induttivo.

3. Infine, la rettifica può essere contabile o extracontabile, secondo che sia collegata alle scritture dell’impresa o ne prescinda.

[4] Nella sentenza 2892/2002 la Direttiva è citata con questa data; invece la corretta è 25 luglio 1978, n. 660, nota come IV Direttiva relativa al bilancio di esercizio.

[5] Si veda l’art. 2423-bis, n. 4), cod. civ. come ristrutturato a seguito del recepimento della IV Direttiva dal D,Lgs. 9 aprile 1991, n. 127 e che sarà in vigore fino al 31.12.2003.

[6] Si vedano le sentenze: Corte cassazione, 17.11.1995, n. 11931; 8.11.1997, n. 11020; 10.11.2000, n. 14169.

Pietro Bonazza