Edmund S. Phelps è un’economista della ristretta cerchia mondiale, che richiede, a buon diritto, la “E” maiuscola. Insegna alla Columbia University e non può essere etichettato di destra o di sinistra, secondo la inveterata moda italica, per cui devi per forza stare da una delle due parti, salvo poi concederti di tenere i piedi in tutte le scarpe e il sedere su tutte le sedie. Se insegnasse in Italia forse lo avrebbero degradato a bidello oppure sarebbe stato costretto a emigrare. Non vi è dubbio che non possa essere considerato fascista, almeno dal seguente passo in un suo articolo pubblicato il 28 giugno 2001 sul “Sole-24 ORE”: «…tra le due guerre mondiali…Nell’opinione generale [che evidentemente lui condivide] il capitalismo non era migliore del comunismo di Lenin o del fascismo di Mussolini. » Nello stesso articolo scrive: « La qualità della vita e la natura delle esperienze di lavoro sono di centrale importanza per gli individui. Attraverso la partecipazione al mondo del lavoro si può impegnare la propria mente, si può scoprire il proprio talento, ricevere stimoli di cambiamento ed ampliare le proprie capacità. Anche la dimensione del reddito ricevuto ha valore perché conferisce la dignità che deriva dall’essere autonomi e di avere possibilità di soddisfare le esigenze personali.» Qualcuno del “popolo di Seattle” sarebbe capace di scrivere o anche solo di nutrire simili pensieri sul lavoro? Del proprio no di certo, perché sono lazzaroni sostentati da un welfare, che dietro un buonismo idiota, sottrae risorse ai poveri veri per far vivere i barricadieri da salotto con rigurgiti di brigatisti rossi; forse potrebbero pensarlo del lavoro “altrui”, che gli consente di vivere “a sbafo”. Nemmeno Serghiei Cofferatik sarebbe capace di pensarlo, occupato com’è a conquistare una segreteria di partito allo sbando, anche per merito suo. Invece, un filosofo italiano, che non era cresciuto tra i baroni dell’accademia, ma sudandosi la vita giorno per giorno in attesa di una raffica di mitra, aveva scritto anni fa e senza la benedizione di una “dottrina sociale ecclesiastica”: « Lavora il contadino, lavora l’artigiano, e il maestro d’arte, lavora l’artista, il letterato, il filosofo. Via via la materia con cui lavorando, l’uomo si deve cimentare, si alleggerisce e quasi si smaterializza…Bisognava che si riconoscesse anche al “lavoratore” l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperto nel pensiero. Bisognava che pensatori e scienziati e artisti si abbracciassero coi lavoratori in questa coscienza della umana universale dignità. Nessun dubbio che i moti sociali e i paralleli moti socialistici del secolo XIX abbiano creato questo nuovo umanesimo la cui instaurazione come attualità e concretezza politica è l’opera e il compito del nostro secolo. In cui lo Stato non può essere lo Stato del cittadino (o dell’uomo e del cittadino) come quello della Rivoluzione francese; ma dev’essere, ed è, quello del lavoratore, quale esso è, con i suoi interessi differenziati secondo le naturali categorie che a mano a mano si vengono costituendo. Perché il cittadino non è l’astratto uomo; né quello della «classe dirigente» – perché più colta o più ricca, né l’uomo che sapendo leggere e scrivere ha in mano lo strumento di una illimitata comunicazione spirituale con tutti gli altri uomini. L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale. Perché è vero che il valore è il lavoro; e secondo il suo lavoro qualitativamente e quantitativamente differenziato l’uomo vale quel che vale. » Non trovo differenze tra questo vecchio scritto e l’articolo di Phelps, che sicuramente non conosceva quel precedente, il quale comunque non ha lasciato alcuna traccia nella cultura italiana se si pensa agli snobismi dei nostri intellettuali, agli elitarismi dei finanzieri, agli egoismi degli imprenditori, all’autoasfissia di certi sindacalisti.