Vi sono ancora campi, resti di cimiteri delle varie pandemie di peste, che la pietà ha conservato soprattutto se al limitare è sorto un santuario o una cappella per celebrare riti di suffragio e invocare interventi, come se il popolo dei fedeli calcoli la probabilità che fra tanti morti ce ne sia stato almeno qualcuno santamente vissuto e ancora in grado di miracolosa assistenza. A Drugolo in provincia di Brescia, per esempio, una chiesetta dedicata ai “Morti della Selva”, ai margini di un camposanto, incorpora nel frontale una lapide a ricordo del terribile flagello della metà del XV secolo, che imperversò anche dalle mie parti. Leggo l’epitaffio scolpito nella pietra:”…sepolti a migliaia” i morti della pestilenza del 1445. Una croce in ferro e un obelisco piramidale senza nomi emergono dalle erbacce del cimitero. Sotto non c’è più niente. La terra avida e pietosa ha risucchiato i resti. Ma non è importante “il sotto”. Importanti sono quelle ostinate croci-simbolo, più istruttive di tante prediche sulla morte. Sono come fiori sbocciati sulle ceneri. Sono il simbolo della grande civiltà della Chiesa cattolica, che preferì: l’inumazione alla cremazione, la natura allo zolfanello. L’uomo è qualcosa in più di una pipata di tabacco e sarebbe bene non dimenticarlo mai. La pietà verso i defunti, che rievoca la grandezza dei sepolcri romani e delle catacombe cristiane, è il segno della nostra religiosità. Niente a che vedere con le mummificazioni degli antichi egizi. Pietà dei sopravvissuti per i defunti, ma pietà anche per se stessi: un modo per volersi bene, per auto comprendersi, per attuare il “se stessi” del comandamento  “ama il prossimo tuo, come te stesso”. La pietas è civiltà dell’amore.

Mi aggiro nel sito con cosmologica tristezza, ma non riesco a pregare per l’indefinito. La mia riflessione è la mia preghiera. Mi chiedo: se i morti erano migliaia, e il cimitero non è enorme, come li avranno seppelliti i poveri appestati per inumarli in così poco spazio? Uno fianco all’altro o uno sull’altro? Ma la risposta la lascio a Vasilij Grossman, che nel paragrafo 32 di “Vita e destino” scrive pagine di struggente commozione sulla sepoltura dei caduti nella “Battaglia di Stalingrado”.