Non si sa per quali meriti scientifici o politici, Silvio Berlusconi “il buono” (in attesa di essere appellato “il Magno”) propose e ottenne la nomina di Giuliano Amato a Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana” Treccani, che ebbe come primo direttore scientifico il filosofo Giovanni Gentile, ammazzato nel 1944 con benedizioni dall’alto dell’Olimpo Comunista, ma già giubilato da Mussolini. Amato non è Gentile, che fu l’anima dell’insuperata Treccani, e, non potendo dare ciò che non ha, ritiene che l’Istituto gli vada stretto e, allora, sale su un’altra cattedra, quella di esperto in “scienza delle finanze”, che, però, gli è ancora più distante della Treccani. Ma, si sa, i grandi spiriti si accontentano anche delle cose piccole, mentre i piccoli pretendono le grandi, quasi come un diritto. Non voglio negare i grandi meriti dell’Amato, perché basta ricordare il suo exploit nel settembre “nero” 1992, quando la lira fu svalutata mentre per l’esimio furono gli altri paesi a rivalutare le proprie valute; per non parlare del famoso DL 11 luglio 1992 con efficacia retroattiva, che, in una notte, riuscì a taglieggiare i depositi bancari dei correntisti italiani. Questi precedenti di uno dei tanti italiani “buoni per tutte le stagioni” o come amano autodefinirsi “uomini delle istituzioni”, devono avergli lasciato la convinzione di essere un grande economista. Solo questa autostima può averlo spinto in questi giorni a dire la sua a proposito del debito pubblico italiano, che, sempre secondo lui, potrebbe essere ridotto, introducendo un’imposta patrimoniale. A ben ricordare, lui di debito pubblico se ne intende davvero, avendo contribuito ad elevarlo ai suoi tempi governativi. Peraltro, in contemporanea, ma forse non è un caso, anche il PD, con in testa Visco, l’inventore dell’IRAP, la più obbrobriosa imposta della storia della tassazione mondiale, è propenso per un’imposta patrimoniale. Ma queste proposte non sono solo prodotti cartacei, perché l’italiano ama gesticolare e l’Amato, come tanti altri, è sempre lì con il suo dito indice alzato in tono minatorio,  diversamente dal Bossi che usa  il medio per altri consigli meno cattedratici o aristocratici.

Ma, non intendo parlare di Amato né di amabili, e nemmeno – scusandomi della preterizione – del ministro in carica Tremonti, che il mondo ci sta invidiando per la sua ferrea capacità di dire di no a tutti meno che a Bossi, che lo lusinga da un lato e lo impaurisce dall’altro, perché la Lega è abituata ad alti e bassi elettorali e il nostro teme, più che il ciclo economico, quello elettorale, anche se un posto tipo Enciclopedia Treccani, ci sarebbe sempre disponibile, nella congerie di enti, che inflazionano il nostro panorama politico. Viene in mente la poesiola di Strapaese “Non quando li prende/ma quando li rende/Parigi ci offende”.

Dopo questo excursus preliminare, fatto così tanto per sollievo umoristico, passo alle dolenti cose serie.

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Imposta patrimoniale no, imposta patrimoniale sì: è il dilemma degli italiani; altro che le notti brave del premier amatore, il quale, forse perché di case ne ha tante, è contrario. Come si detto, favorevolissimo è Giuliano Amato, tassatore con ansia di rientro politico, con tutto il PD, mentre Tremonti è per un dannunziano “Forse che sì, forse che no”, preso com’è dall’incertezza dove fare il suo uovo politico, memore delle sue origini socialiste, orientato verso la Lega, ma non si sa fino a che punto, non sapendolo nemmeno lui stesso. Non ho simpatie per i politici, che si spacciano per economisti, a parte il fatto che nel caso Amato e Tremonti economisti non sono, semmai possono essere giuristi o esperti di diritto tributario, che è altra cosa. Queste constatazioni non interessano, perché prima viene la domanda: che cos’è un’imposta patrimoniale? Apparentemente colpisce i patrimoni. Precisiamo: a) un’imposta patrimoniale non può incidere sulle imprese, perché sarebbe una scelta di congelare ai bassi livelli attuali la ripresa economica. A parte questo non insignificante particolare, il nostro sistema tributario attuale, ritenendo di dare piena applicazione alla capacità contributiva a sensi art. 53 della Costituzione, è incentrato sulla manifestazione del reddito da rendita, da lavoro dipendente e da lavoro subordinato per le imposte dirette e sull’IVA per le indirette. Può solo colpire i privati e in particolare gli immobili, che sono la ricchezza più stabile e certa perché registrati e accatastati; b) ai nostri livelli di pressione fiscale significa deprimere ulteriormente i consumi, ma anche la sottoscrizione dei titoli dello stato; c) non aumenta il gettito, perché, come insegnano gli esperti, l’imposta patrimoniale si pone in concorrenza con le imposte dirette, essendo, nonostante le apparenze di indiretta, una imposta sul reddito. Cioè l’imposta patrimoniale si paga con il reddito; d) imposte patrimoniali esistono già e si chiamano imposta di registro e imposta di successione; e) l’Amministrazione finanziaria non è in grado di gestire un’imposta patrimoniale, perché già è in difficoltà per le attuali dirette e indirette, come dimostra l’aumento esponenziale del contenzioso fiscale e l’evasione che persevera, nonostante le autoencomiastiche dichiarazioni statistiche dell’Agenzia delle Entrate. Gravare l’Agenzia della gestione di una imposta patrimoniale è caricare un animale con un peso insopportabile, perché si fa presto a proporre l’istituzione di un’imposta patrimoniale, ma bisogna prima ancora pensare come armonizzarla con le altre imposte e in particolare con l’IRPEF, pena la duplicazione di tassazione. In altri termini: un’imposta patrimoniale colpisce il capitale che è la fonte. Se riduciamo la fonte, anche il reddito, che è come il flusso di acqua che dalla fonte proviene, si assottiglia. Da qui due domande: quali sono le conseguenze finali sul gettito complessivo per lo stato? Un’imposta patrimoniale la rendiamo o no deducibile dall’imposta sul reddito? Senza contare l’aumento dell’evasione, non tanto sugli immobili, che come si dice, purtroppo “non hanno le ruote”, ma su altre manifestazioni di ricchezza, specie sui titoli azionari, obbligazionari e sui titoli dello stato, che, al primo sentore di imposta patrimoniale verrebbe venduti, con facili conseguenze sull’intera economia, a prescindere dagli effetti sulla già asfittica Borsa, a meno di inventare un’imposta patrimoniale retroattiva; f) il debito pubblico si risana frenando le spese, terremoti e alluvioni permettendo, non con il torchio fiscale, che è già oltre i limiti della sopportazione, almeno per alcune categorie di contribuenti, che sono poi quelli che costituiscono la borghesia piccolo-media, la più esposta, ma anche la più vendicativa nella cabina elettorale. C’è da pensare che i proponenti di questa bislacca idea siano, nonostante le loro intenzioni, gli affossatori della sinistra. Ma, tanto, all’harakiri ci sono abituati.

In relazione al punto c) è bene riportare la corretta affermazione di Francesco Forte, professore di scienza delle finanze, quindi economista vero, successore di Einaudi alla cattedra torinese: «Il principio base di una economia che rispetta la proprietà privata e il risparmio è quello che anche le imposte sul patrimonio si pagano con il reddito che da tale patrimonio si ricava, quindi vanno commisurate al reddito».

Un’imposta patrimoniale si affiancherebbe al federalismo fiscale, che, già di per sé, lascia seri dubbi sulla strombazzata ipotesi di riduzione della pressione fiscale.