Tentazione

 

Un famoso detto popolare padovano recita: “xe pèso el tacòn del buso”. Mi chiedo: e se non c’è buco? Il rattoppo rovina il tessuto! È logica ineccepibile. Con i due articoli pubblicati in “Dialogo” 7 maggio 2017 e 5 luglio 2019 ho cercato di dimostrare che l’invocazione nella preghiera al Padre Nostro “…e non ci indurre in tentazione” tradotta letteralmente dal latino ”… et ne nos inducas in tentationem” è corretta dal punto di vista semantico, grammaticale, sintattico e storico. La mia conclusione è stata che la riforma proposta da neo-teologi rivoluzionari occupati in tentativi di modificare duemila anni di storia del Cristianesimo è fatica sprecata, perché il verbo “indurre” è corretto e non c’è alcun pericolo di cadere, con esso, in rischi blasfemi sull’onda della tesi che Dio non può desiderare il male dell’uomo abbandonandolo alla tentazione. La verità è che non lo abbandona, anzi lo “sottopone”, lo vuole mettere alla prova, una prova di resistenza, di resilienza come è diventato di moda dire in questi tempi. La mia modesta conclusione è stata: lasciamo le cose come sono, perché va bene com’è. La conferma l’abbiamo nel Vangelo di Matteo (4, 1):

«Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo…». Lo Spirito (Santo) è Dio (Pater) e non solo conduce, ma chiaramente “induce” (“inducat”). Come a dire: tu uomo impara da Gesù, che fu condotto a subire la tentazione affinché tu apprenda che la tentazione è una condizione imposta per mettere alla prova la tua volontà, la tua resistenza al male, la tua capacità di reazione. Diversamente dal protestantesimo, per il Cattolicesimo la salvezza dell’uomo non è una volontà preordinata dal Creatore, ma richiede la partecipazione attiva dell’uomo, chiamato a metterci del suo, perché la sua è una specie di invocazione che stimola la misericordia. Infatti, non si legge nel Vangelo che Gesù abbia implorato un “non inducas…”, ma affrontò la tentazione “indotta” dallo Spirito.