Il filosofo tedesco Hegel ha il merito di aver introdotto il concetto di “società civile” e si illudeva, probabilmente, di aver esaurito le categorie, che da secoli dominavano, nel bene e nel male, i rapporti tra gli uomini legati da un denominatore comune: polis, patria, nazione, stato. Non aveva pensato, o forse i tempi non erano maturi, al concetto di “società politica”, che è una sovrastruttura e nelle esasperazioni della nostra epoca sconfigge e mette in angolo la “società civile”. La società dei cives, dei cittadini, non esiste più. L’uomo, in quanto individuo, è stritolato da una entità mostruosa che si chiama “stato” – e questo Hegel lo aveva esaltato – ma non più fondato su principi etici derivati dal diritto, per il che può anche essere giustificato illuderci, ma sulla “società politica”, che si autoalimenta, anzi continua a crescere come una tenia abbarbicata a un intestino.
La società politica è proteiforme, anzi è un’idra dalle mille teste, che solo un Ercole riuscirebbe a sopprimere con cruenza.
Ma la società politica non si accontenta di cancellare la società civile, si riveste di una ipocrita veste di perbenismo, di buonismo, di una sembianza tartufesca di democrazia e chiama questa sua maschera “riformismo”. Viene alla mente il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “cambiare tutto per lasciare tutto come prima”. Noi, per amore di verità, diciamo “per peggiorare il prima”. Gli esempi si sprecano, anche nei settori meno ideologici, come il diritto societario, che nel 2003 è stato riconfezionato con nastrino di preteso ammodernamento da una riforma del diritto societario, che più lo si applica, più cresce il rammarico che quello stuolo di megagiuristi, capeggiati da un sottosegretario vestito in una toga arrogante, non abbiano preso una lunga vacanza, lasciando le cose com’erano da decenni. Cotanti senni sono riusciti persino a fare un cattivo uso della lingua italiana, la più razionale tra i linguaggi soprattutto nel diritto, con cui non è ammesso barare, a meno di insultare la logica.
Prendiamo un esempio a caso: l’art. 2409-decies, cod. civ., finalizzato a regolamentare l’azione sociale di responsabilità nel “sistema dualistico”.
Recita il primo comma: «L’azione di responsabilità contro i consiglieri di gestione è promossa dalla società o dai soci, ai sensi degli articoli 2393 e 2393-bis». Il lemma topico è il participio “promosso”, che in un qualsiasi dizionario della lingua italiana, significa, in termini giuridici, “dare avvio al processo”. Ma chi dà l’avvio? Dice la norma: la società o i soci e, poiché è fatto rinvio all’articolo 2393, se è la società il soggetto promuovente, significa che l’azione «…è promossa in seguito a deliberazione dell’assemblea» (art. 2393, comma 1, cod. civ.). Allora la sequenza delle operazioni è la seguente: chiunque (socio, consiglio di sorveglianza in collegio o singolo consigliere) avanza una proposta in assemblea, questa delibera a favore dell’azione e, in seguito, l’azione, è “promossa”, cioè può prendere avvio. Sin qui, diritto ed espressioni lessicali, non sembrano offrire critiche e l’interpretazione, nel rispetto dell’art. 12 delle Preleggi, non offre difficoltà, che, invece, sorgono leggendo il comma secondo dell’art. 2409-decies, cod. civ., cioè: «L’azione sociale di responsabilità può anche essere proposta a seguito di deliberazione del consiglio di sorveglianza…». Qui il lemma topico è il participio “proposto”, che indica un’azione da compiere dopo che il consiglio ha “assunto una deliberazione” in merito.
In entrambi i casi (comma 1 dall’assemblea, comma 2 dal consiglio di sorveglianza), si ha l’adozione di una previa deliberazione, come è ovvio, anzi necessario, però nel primo l’azione consiste in una “promozione” (promossa), nel secondo in una “proposta”, ma la “proposta” è un “porre prima” e precede una deliberazione, anzi ne è condizione. Infatti, se nessuno avanza una proposta come si può attivare una deliberazione in un organo collegiale? Allora la “proposta” del comma 2, si risolve in una contradictio in adiecto, anzi in un pasticcio, perché finirebbe per mettere dopo il prima.
Gli esimi e paludati commissari avevano una sola scelta: ripetere il participio “promossa” del comma 1 anche nel comma 2, senza timore di ripetizione, perché nemmeno il grammatico più arido e sofista potrebbe sacrificare la ripetizione alla chiarezza, tanto più che in diritto, non solo nessuna norma, ma nemmeno la singola parola e la punteggiatura sono inutiliter datae.
Ma a pasticcio compiuto sono intervenuti i giuristi (non si sa se anche membri della Commissione nella precedente funzione preparatoria del testo), i quali hanno sbrigativamente messo una pezza sul cosiddetto “buco”, avanzando la tesi che si tratta di due azioni, quella dell’assemblea e quella del Consiglio di sorveglianza, “alternative”, forse esasperando la funzione della congiunzione “anche” inserita nel comma 2 del citato art. 2409-decies. Ma, tale congiunzione ha senso, cioè può congiungere, solo se si tratta di realtà di pari livello.
Resta solo una disarmante domanda retorica: in quale punto dei pantaloni il buon Cicerone avrebbe preso a calci legislatori e autori?
Pietro Bonazza