Astensione dal voto dell’amministratore in conflitto d’interessi

 

Astensione è, per definizione, una presenza nell’organo collegiale, senza l’espressione di un voto favorevole o contrario alla deliberazione in atto. Non è sospensione, ma un silenzio che, in sostanza, può essere oggetto di interpretazioni da parte degli altri soggetti presenti, mentre  in forma è semplicemente un non voto.

Si prescinde, qui, dalle conseguenze dell’astensione, che, per le assemblee consente l’impugnativa per annullabilità della delibera, se assunta in difformità della legge o dello statuto (art. 2381, comma 1, cod. civ.), mentre per l’astensione nel consiglio di amministrazione valgono le diverse regole dell’art. 2388, comma 4, cod. civ.. La norma parla di astensione, che è cosa diversa dal dissenso. La differenza tra astensione del socio ex art. 2373 cod. civ. nelle deliberazioni assembleari e amministratori delegati nelle deliberazioni del consiglio di amministrazione deriva dal principio secondo cui in assemblea il socio assume comportamenti secondo propri interessi, mentre l’amministratore deve perseguire l’interesse primario della società, quindi deve esprimere un atteggiamento coerente, positivo o negativo, con il mandato ricevuto ancorché organico, salvo il caso eccezionale del conflitto di interessi, che il legislatore interpreta sempre nell’ambito del superiore interesse dell’ente.

Inoltre, si osservi che le deliberazioni del Consiglio di amministrazione sono impugnabili “dagli amministratori e dal collegio sindacale” ex art. 2391, comma 3, cod. civ.. Detto comma non precisa se il diritto-dovere di impugnativa competa o no anche all’amministratore astenuto, perché la norma è generica (“dagli amministratori”), ma dalla ratio si dovrebbe dare risposta affermativa, perché un conto è l’astensione per conflitto di interessi e altro conto è l’interesse della società non perseguito dai votanti.

In questo quadro preliminare si pone il caso di un amministratore, che, su un determinato oggetto di deliberazione dell’organo collegiale, sia “per conto proprio o di terzi” in conflitto di interessi (art. 2391, comma 1, cod. civ.) e dichiari di astenersi nel momento di assunzione della deliberazione o lasci temporaneamente la riunione per rientrarvi in seguito, trucchetto che non cambia la conclusione finale. Infatti, si può influire su una deliberazione anche non partecipandovi: dipende dal potere sostanziale che detiene l’astenuto o il “fuori porta”, ma è comunque in grado di esercitare la sua influenza, situazione di fatto che la legge non contempla, ma non esclude la competenza del giudice chiamato a valutare la sostanza dei  fatti e degli atti.

L’ipotesi, peraltro ricorrente anche nella pratica, porta in evidenza le conseguenze, nel caso in cui la deliberazione sia assunta dalla maggioranza degli amministratori ex art. 2388, comma 3, cod. civ. e si riveli nociva per gli interessi della società. In questo caso, deve essere posto il problema della responsabilità dell’amministratore astenuto, pur nel rispetto dell’apparentemente inconciliabile conflitto di interessi. Cioè: l’astensione, di fronte all’assunzione di una deliberazione nociva per l’interesse societario, è sufficiente a sgravare l’astenuto da responsabilità? O, in altri termini: l’amministratore che si astiene, è esonerato dal considerare il miglior interesse, seppur discrezionalmente ma professionalmente valutato, della società, al cui tavolo decisionale siede in quel momento?

Si pone, quindi, una gerarchia di valutazioni e conseguenti comportamenti, apparentemente configgenti. È ben vero che l’amministratore delegato in conflitto ha il diritto-dovere di astenersi e il non delegato di informare della sua condizione, ma non si può dimenticare che nel momento stesso sono comunque obbligati a perseguire l’interesse della società amministrata. Questa gerarchia di priorità è voluta dal legislatore, che ha posto un sistema in cui è prevalente l’interesse della società ed è proprio questo principio di prevalenza che giustifica il dovere di astensione per conflitto, da ritenere assorbito o dialetticamente composto in quello più generale dell’interesse sociale. Vero è che l’art. 2391, comma 4, cod. civ. imputa responsabilità all’amministratore per i “danni derivanti alla società dalla sua azione od omissione”.

Date le circostanze e la gerarchia delle norme, l’amministratore può sciogliere il dilemma esprimendo astensione per conflitto di interessi, ma facendo mettere a verbale, contestualmente, il suo avvertimento che la deliberazione sarà pregiudizievole per l’interesse sociale, diversamente operando si manifesteranno le conseguenze previste dall’art, 2392, comma 2, cod. civ. il cui dettato letterale, ma anche generale e prevalente, è che: “In ogni caso gli amministratori, fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art 2381, sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.

Pertanto, l’astensione non può essere ritenuta un alibi per scansare responsabilità, nemmeno nel caso in cui il soggetto in potenziale conflitto sia lo stesso che nel verbale di consiglio abbia  fatto formalizzare il suo non voto. Sia fatto l’esempio di una società Alfa, che deliberi l’acquisto di un bene da Beta viziato da difetti intrinseci ben conosciuti dall’amministratore delegato Tizio, pure amministratore in quest’ultima società, che dichiari in quel momento una sua posizione conflittuale (tra i tanti: il caso di un prezzo o condizioni economiche sfavorevoli per la società Alfa) e si chiuda in silenzio dietro lo schermo dell’astensione. Egli non sarà sollevato da responsabilità, se ha omesso di informare e fatto mettere a verbale che si tratta di operazione oggettivamente pregiudizievole per Alfa a prescindere dalla sua non partecipazione al voto.

Il principio qui enunciato è stato affrontato e risolto nello stesso senso dalla Corte d’Appello di Milano in sentenza 6 febbraio 1998, che, pur in un contesto normativo non ancora modificato dal D.Lgs. 17/1/2003, n. 6, può ritenersi tuttora un punto di riferimento giurisprudenziale.