A tutti i lettori del Dialogo cordiali auguri di Buon Natale e Felice anno 2019
da Pietro e Giulia Bonazza.
 
Nell’occasione offriamo in lettura una fiaba natalizia inedita:
 
 

Fiaba del centurione padano

 
 

In Illiria, dove la legione era stata inviata per domare la rivolta dei Dalmati, Procerus, un padano dal fisico possente e di provato coraggio, era ancora un legionario scelto. Sul terrapieno che costituiva l’avamposto per la difesa del campo piovevano dardi da ogni parte. Il comandante si era spostato sul terrapieno per meglio controllare le posizioni del nemico e dirigere la tattica della battaglia ed era spalla a spalla di Procerus nel momento in cui una freccia lo avrebbe colpito, se il legionario non si fosse gettato sul comandante per proteggerlo. La freccia aveva colpito Procerus conficcandosi di striscio in una spalla. Il comandante, dopo la battaglia, dimostrò gratitudine a Procerus, donandogli il proprio elmo e il mantello con fibula in argento. Seguirono altre battaglie, in cui Procerus dimostrò coraggio e intelligenza e alla fine della campagna contro i Dalmati il comandante lo promosse centurione e, quando passò al comando della legione inviata in Palestina, lo volle con sé per svolgere funzioni di coordinamento tra i distaccamenti dei legionari e di osservatore sul territorio di parte della Giudea, agevolato dalla rapidità con cui Procerus sapeva apprendere lingue locali. Amava la tavola abbondante in proporzione alla sua stazza fisica. Un giorno aveva diviso due litiganti sollevandoli di peso, uno con la destra e l’altro con la sinistra, scagliandoli in un letamaio. Gli piacevano i cavalli e dall’Illiria il comandante gli aveva concesso di portarsi Thor un caballus dalmata imponente, poco veloce, ma instancabile e obbediente, a cui parlava abitualmente e Thor lo guardava con i suoi occhi buoni e vivaci, come capisse. Non era un soldato pio: per lui esistevano Cesare e l’esercito di Roma, ma spesso, nelle notti stellate aveva guardato il cielo terso della Giudea, chiedendosi dubbioso dove mai potesse star seduto Giove e la brigata di tante divinità goderecce onorate da romani e, invece, dove potevano mai stare i suoi genitori, i suoi nonni, su su fino ai celti da cui proveniva. Ma, poi, ritornava sulla terra, sui suoi piedoni concreti. Lui era un centurione, fiero e orgoglioso di appartenere a un esercito invincibile, e questo pareva bastargli.

Da un mese Cesare aveva ordinato un censimento in tutto l’impero, per contare uomini e popoli, che ormai facevano parte di un mondo complesso e organizzato, acquietato dalla pax romana. L’ordine era perentorio: ogni individuo doveva farsi registrare, dichiarandosi all’autorità. Non era un provvedimento particolarmente odioso, essendo senza costi, salvo le spese del viaggio, per chi risiedeva in villaggi lontani dai posti di registrazione. Ma la gente non capiva, soprattutto non capivano i giudei, che avevano in odio Cesare e aspettavano un messia, un liberatore. Procerus non riusciva a capire, forse perché nemmeno i giudei avevano idee chiare in proposito. Loro pensavano un messia re guerriero alla testa di eserciti. Procerus si chiedeva come non potessero rendersi conto che con il dominio consolidato di Roma in tutto un impero, eserciti liberatori sarebbero stati improbabili. Così da più di un mese il suo compito si era reso più difficile. Per spostarsi da un distaccamento all’altro della legione, preferiva per prudenza il buio e il sabato.

Si avvicinava la notte e Procerus era diretto a Betlemme, le briglie sciolte sul collo di Thor del cui senso di orientamento si fidava e, così, ciondolava a cavallo quasi assopito in distratti pensieri.

Solo dopo essere ruzzolato ginocchioni per terra, si accorse che pure Thor era in ginocchio sulle gambe anteriori e questo spiegava la caduta davanti alla porta di una stalletta, alta a misura d’asino, che non toccava nemmeno l’omero del centurione. Elmo e mantello si erano sganciati e giacevano per terra. Alla fioca luce di una candela di sego, Procerus vide una donna con un neonato stretto al seno e vicino un uomo, che doveva essere lo sposo. I due lo guardavano intimoriti, perché un soldato romano incute sempre grande preoccupazione. Ma, dopo un attimo di smarrimento, lo sguardo dei due si fece più disteso e Procerus pensò di aver sorriso, lui che, come tanti padani, era più incline allo sguardo severo, quasi accigliato.

«Come si chiama?» chiese Procerus in lingua locale accennando al neonato.

«Lo chiameremo Ieshua» rispose la madre, stringendo ancor più teneramente la sua creatura.

«Iesus» precisò lo sposo, perché a un romano si deve parlare possibilmente in latino, per rispetto e per prudenza.

«Fa freddo di notte qui in Giudea» disse Procerus e allungando il suo mantello «coprite il bambino, perché il panno che avete è inadeguato».

Nessuno avrebbe immaginato che quel mantello sarebbe tornato ai romani trentatre anni dopo, tirato a sorte ai piedi di una croce. Solo il neonato sapeva!

Procerus si rimise in testa l’elmo, si rialzò senza attendere ringraziamenti, perché un soldato di Roma dà e toglie semplicemente perché romano. Saltò su Thor e riprese la strada. La notte era piena di stelle, ma una, molto più luminosa delle altre, pareva incombere a picco su Betlemme.

«Che strana notte – disse Procerus rivolto a sé e al suo cavallo. «Sembra persino magica. Ma qui non dobbiamo stupirci, se non riusciamo a capire» – e spronò Thor per affrettare la fine del viaggio.

Pietro Bonazza