IVA, operazioni inesistenti e buona fede

L’art. 21, comma 7, del Dpr 633/1972 si limita a disporre che «Se viene emessa fattura per operazioni inesistenti…l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura». La norma, di per sé, è di difficile interpretazione e applicazione, se non è letta in collegamento con l’intenzionalità del destinatario della fattura: a) mera negligenza o imperizia, comunque con buona fede, quindi correggibile ex art. 26 successivo oppure b) intenzionalità finalizzata all’evasione non correggibile ex art. 26, perché integra casi di delitto per dolo specifico, ricadenti nel D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, (in particolare l’art. 8) oltre che nell’art. 203 della Direttiva comunitaria 2006/112/CE, che ha generato una copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Questi riferimenti normativi e la struttura dell’IVA, che mediante la correlazione versamento dell’imposta addebitata al cliente e registrazione a credito da parte di questi fino al consumatore finale inciso dall’imposta, consentono di intendere che il comma 7 dell’art. 21 afferma indirettamente che l’Iva va versata all’Erario da parte del cedente e, se c’è interruzione della catena, il cessionario perde il diritto di iscriverla a proprio credito.

La denegazione della detraibilità dell’IVA è un modo indiretto per superare pro-Fisco il rischio che il cedente o il prestatore del servizio incassino l’IVA corrispostagli dal cessionario o dal fruitore e non la versi all’Erario. Negando al cessionario o al fruitore la detraibilità dell’IVA versata controparte, l’Erario blocca al passaggio precedente e senza perdite la catena interrotta debito-credito del tributo indiretto.

Però, sul piano concreto, l’indeterminatezza della locuzione “operazioni inesistenti” resta e, essendo un genus, a creare le species hanno provveduto dottrina e giurisprudenza, che le hanno identificate in inesistenza oggettiva e inesistenza soggettiva.

La prima fattispecie è di facile individuazione, perché si tratta di rivestire con fattura una transazione mai avvenuta (beni e servizi mai trasferiti o prestati e, quindi, mai ricevuti o fruiti). Qui non è nemmeno questione di prova contraria da parte dei due operatori scientemente coinvolti, seppure la mancanza dell’operazione reale debba fondarsi su elementi di fatto, che non possono essere superati con apparenze formali di scritture e documenti.

Più problematica l’inesistenza soggettiva, in cui il cessionario riceve merci o servizi, spesso ignorando che il cedente o il prestatore di servizi apparente non è quello reale, subendo così una interposizione fittizia di persona.

Le due categorie hanno in comune il fenomeno della “prova”, che per la Corte di Giustizia UE si traduce nell’incontestabile diritto del cessionario o del fruitore del servizio al recupero dell’IVA versata al cedente o prestatore del servizio mediante iscrizione di un credito verso l’Erario, sempreché esista la “buona fede”, cioè il cessionario abbia verificato preventivamente con diligenza l’identità, la capacità imprenditoriale e l’oggetto dell’attività del cedente. Questo principio vale, da ultimo, anche per la giurisprudenza di legittimità della Corte di cassazione [si vedano, per esempio, le sentenze 5 giugno 2015, n.11661, 26 febbraio 2014, n. 4609 e ordinanza 17 giugno 2014, n. 13787]; significativa anche la sentenza della Commissione Tributaria Regionale Piemonte, Torino 14/7/2015. In termini più specifici, ma anche limitativi, la Corte di cassazione ha espresso, nella sentenza 5 giugno 2015, n. 11661 con richiamo al D.L. n. 16/2012, il principio che, in caso di inesistenza soggettiva grava sull’Amministrazione l’onere della prova anche per sole presunzioni che le operazioni non sono mai state poste in essere nei confronti del cessionario, mentre resta su questi l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, ma escludendo, per ritenuta inadeguatezza, le prove dell’avvenuto pagamento delle fatture e dell’avvenuta consegna della merce acquistata. Il rischio che quella a carico del contribuente per le esclusioni citate si traduca in una “prova diabolica” è evidente; il che lascia le cose sostanzialmente invariate alla giurisprudenza risalente rispetto alla quale non si vede un’effettiva novità. Escludere dalle prove da ritenere valide la reale movimentazione della merce significa negare che la realtà di un’operazione è, invece, se non nel pagamento, nel ricevimento e nel conseguente passaggio di possesso della merce, che alimenta la catena che porta ininterrottamente al consumatore finale, fine concreto della normativa IVA.

Non è questo l’intendimento della Corte di Giustizia UE che ha dato del concetto di “buona fede” un significato sostanziale e non formale [si veda, per esempio, la sentenza del 9 luglio 2015, n. C-183/14]. Non si deve dimenticare che il problema delle prove ne lascia la soluzione al giudizio delle corti di merito. In termini definitori astratti la buona fede può essere intesa come lo stato psicologico dell’operatore che non è consapevole di inserirsi in un atto che lede gli interessi del Fisco, in rapporto al quale l’atto deve conformarsi a principi di lealtà e correttezza. Se ci si ferma qui, il concetto di buona fede, che, si noti, deve connotare non solo il comportamento del contribuente, ma anche l’attività dell’Amministrazione finanziaria, lascia aperto il problema pratico di quali attività possono essere pretese dal contribuente per dimostrare la propria buona fede.

E qui sta il punto, perché il concetto di buona fede, non può esaurirsi in una definizione astratta: non è uno stato meramente psicologico, ma è concreto e operativo, anteriore al venire a esistenza dell’atto per la parte che riguarda il soggetto che intende iscrivere a proprio credito verso l’Erario, l’IVA versata al fornitore. La concretezza della buona fede non può essere riconosciuta a chi dimostra ingenuità tale da essere fuori da un comportamento di normale diligenza, perché l’ingenuità non è esimente dell’errore di colpa fino al dolo specifico, che portano alla presunzione di coinvolgimento o connivenza con il fornitore nella consumazione della frode fiscale. Il problema si sposta, sul piano concettuale, ma soprattutto operativo, sul tema della prova che vede: da una parte, il pretendente al riconoscimento del credito IVA, chiamato a dimostrare la sua buona fede nel momento preparatorio della transazione commerciale incentrato su indagini o attenzioni non minori di quelle che rientrano nella normale diligenza; dall’altra, l’insaziabile pretesa del Fisco di vanificare ogni prova già nel momento ante processum. In mezzo sta il giudice, al quale si chiede un giudizio non inficiato da ideologie pro Fisco. Poiché il riconoscimento delle prove è un atto discrezionale, la buona fede può diventare un concetto elastico, che può persino ignorare la realtà dell’operazione (merce effettivamente entrata nei magazzini dell’acquirente, appalto regolarmente eseguito, ecc.) con confusione tra inesistenza oggettiva e inesistenza soggettiva dell’operazione. Questo è il motivo che porta a considerare diabolica una prova che pretenda comportamenti al di là della normale diligenza.

 En passant, si rileva anche che la riforma della materia dei reati tributari del D.Lgs. n. 158/2015 ha lasciato invariate le norme sanzionatorie già in vigore con il D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.