L’UEM non ha raggiunto sino ad oggi risultati esaltanti, ma ha prodotto l’effetto di dividere gli europei in euroscettici ed euroentusiasti. La razionalità, che a detta di un filosofo vivente si è rifugiata ormai nel porto dell’economia, non consente scelte di quel tipo, che debbono essere lasciate alla politica e allo sport. Per questo motivo non ci possiamo iscrivere ad alcuna categoria, perché perderemmo la lucidità necessaria alla ricerca delle cause di un insuccesso, che sembra peggiorare di giorno in giorno. In articoli recenti abbiamo individuato nella mancanza di flessibilità e nella insufficiente produttività due cause, che già autonomamente sarebbero in grado di determinare la caduta di una moneta; figuriamoci se coesistenti. Da qui una spiegazione sufficiente del fenomeno che, salutato a bassa voce e non senza ipocrisia come benefico per l’export, finisce per presentare un conto più salato del previsto, così confermando il giudizio che in economia non esistono stop and go, fine tuning e altre dosature farmaceutiche da economisti politici illusi, perché il controllo del fenomeno economico può sfuggire di mano in ogni momento, per il gioco cumulativo e perverso di concause, che rendono l’economia inadatta a interpretazioni e manipolazioni da laboratorio. Possiamo analizzare, in aggiunta a produttività e flessibilità, altre componenti del complesso fenomeno “euro”. Per riprendere la classificazione ricordiamo che i pessimisti (euroscettici) indicano in 0,80 dollari per 1 euro il rapporto corretto, per cui si attendono ulteriori record negativi nel cambio, mentre gli ottimisti (euroentusiasti) individuano il rapporto naturale in 1=1. Tra i secondi si può ascoltare la voce autorevole di Robert Mundell, economista canadese premio Nobel del 1999, teorico dell’economia internazionale e tifoso dell’Uem, che, intervistato nel febbraio 2000 azlle ripetute scivolate dell’euro, ha affermato: ” La Banca centrale europea deve soprattutto cercare di arginare il fenomeno ponendo una base all’euro. Gli strumenti di politica monetaria ci sono, anche perché la gran parte delle riserve delle banche centrali sono in dollari. E io riterrei equo un rapporto di uno a uno rispetto alla valuta americana.” È vero che rispetto alla data dell’intervista la crisi petrolifera si è acuita, ma al chiaro economista non sfuggiva certo che tale fenomeno negativo già colpiva anche gli Stati Uniti, seppur senza l’aggravio del cambio, essendo il barile quotato in dollari. Si può ipotizzare che Mundell ripeterebbe anche oggi la sua opinione sul rapporto tra le due monete, anzi, aggiungerebbe la considerazione che i tentativi di Greenspan per un atterraggio morbido del dollaro sono consolidati e questo agevolerebbe la ripresa dell’euro. L’economia internazionale si avvantaggia di cambi equilibrati e “sinceri” e di più locomotive che tirano, il che significa che “tutti” ne beneficiano, quando “tutti” vanno al meglio, perché il mors tua vita mea può forse valere per uno stato di guerra, mai per l’economia. L’ipotesi astratta di questa nota è che Mundell abbia visto giusto. Se così fosse, vi sono sintomi attuali per un ritorno alla partenza dell’1.1.1999, quando l’euro nacque con la presunzione di essere già adulto? Ci può aiutare il titolo di un articolo di un economista italiano incorreggibile ottimista: “Nessun allarme, bisogna guardare al cambio effettivo”. Siamo d’accordo sull’importanza del cambio effettivo, purché sia quello reale, anche ricordando una nota metodologica della Banca d’Italia, che nel “Bollettino economico” n. 30 del febbraio 1998, rilevato che quel cambio raffronta, in una misura comune, la dinamica dei prezzi di un paese con quelle degli altri, consente così una valutazione, almeno indiretta, della competitività. Ora, la competitività può essere vista sotto due aspetti: · reale, in cui prevale il medio-periodo e considera che produttività e flessibilità di un’economia finiscono per tradursi nel valore della relativa moneta; · nominale, in cui prevalgono il breve periodo e il puro differenziale monetario, spesso ottenuto con svalutazioni striscianti e programmate. È il noto fenomeno delle “svalutazioni competitive”, che l’Italia ha praticato in passato, attirandosi le critiche dei paesi concorrenti, che, giustamente, hanno ritenuto quella politica una pratica sleale. Non si dimentichi che all’origine dell’Euro c’è anche il fine di superare il disordine monetario interno e, quindi, dei cambi europei. Ma questa politica non paga. La svalutazione e l’inflazione sono inseparabili compagne di viaggio, perché la prima, come una nave con una falla, imbarca sempre la seconda. Si dice che la svalutazione compra solo tempo. L’Euro è dall’inizio 1999 che acquista tempo e, pare, senza volerlo, il che spiega a maggior ragione la debolezza della moneta comune, che subisce politiche degli altri e pressioni speculative. Ci si può chiedere se vi siano sintomi di una inversione di tendenza. Purtroppo per gli eurottimisti, questa situazione non si legge nelle rilevazioni della Tavola 10 del “Bollettino BCE”, settembre 2000, in cui si vedono i tassi di cambio reale in continua caduta dal gennaio 1999 all’agosto 2000. Ci si può chiedere quali sono i motivi e qui sta il punto: manca quella “base”, che anche Mundell continua a predicare. Delle sue considerazioni ci può confortare, seppure non abbiamo dati precisi, che la riserva della banca centrale è imbottita di dollari, e, allora, se così è, il panino monetario, anche se macdonald, è meno indigesto.