” Pietro Bonazza

Pietro Bonazza

AMMORTAMENTI IMPOSSIBILI

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(Articolo pubblicato sulla rivista “Bollettino Tributario, 1989, n. 8 del 30.4.1989

N.B.: l’art. 67 del TUIR 917/1986 è stato rinumerato con 102 dal D.Lgs. 12.12.2003, n. 344)

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Il sesto comma dell’art. 67 T.U. 917/86 prevede che :

Per i beni il cui costo unitario non superiore a 1 milione di lire è consentita la deduzione integrale delle spese di acquisizione nell’esercizio in cui sono state sostenute“.

La norma, di piana lettura e facile interpretazione, non sembra offrire interessi esegetici, tant’è che la “Relazione governativa” al Testo Unico si limita a rilevare che : « Il limite di cinquantamila lire stato portato a un milione per eliminare l’ingiustificata differenza con gli articoli 50 e 79 ». Sembra quindi che l’opera di traslazione nel Testo Unico del sesto comma dell’art. 68 del DPR 597/1973 non abbia portato modifiche sostanziali, se non l’elevazione del massimale. Ma, come si dirà, la “Relazione” può aver inteso fornire una chiave di interpretazione più interessante di quanto non sembri a prima lettura.

Si deve prima rilevare una continuità fra la norma originaria e quella codificata, continuità che è utile se, risultando necessario il ricorso all’interpretazione della ratio della legge, si debba richiamare anche la “Relazione” accompagnatoria del DRP 597.

Ai fini della presente nota è opportuno richiamare una caratteristica fondamentale del nostro diritto tributario, accentuata con l’emanazione del testo unico 917 e cioè la rinuncia del nostro legislatore alla proposizione di norme generali e di definizioni giuridiche. Il diritto tributario si riduce allora ad una ‘casistica’, come ha denunciato con chiarezza Enrico De Mita [1].

La costruzione di un diritto tributario inteso come ordinamento coerente, seppur speciale, diventa allora difficile e l’interpretazione può ridursi ad una operazione inventariale di pronunzie e di casi. Addirittura si nota l’oblio dei canoni fondamentali di interpretazione dettati dall’art. 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale” e cioè che alla legge non si può: «.. attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore ».

A ben guardare, l’art. 12 delle Preleggi è un richiamo alla saggezza antica dello ius, per cui nella lettura della norma bisogna prima di tutto far riferimento al vocabolario e al buon senso.

Date le premesse, può risultare banale un qualsiasi sforzo esegetico sul sesto comma dell’art. 67 T.U. 917/1986, ma la lettura di opinioni discordi stimola un approfondimento, che può risultare opportuno se si considerano l’ultimo comma dell’art. 75 T.U. e la Circolare 29.9.1988 n. 23 sulle procedure di eliminazione anche dei cespiti ammortizzabili.

In termini operativi si tratta di stabilire se i beni di valore unitario non superiore a un milione sono o no cespiti ammortizzabili anche quando l’impresa si sia avvalsa della facoltà di addebitarne interamente il costo all’esercizio.

Passando all’interpretazione, se il primo canone deve essere la verifica del « senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse », è di tutta evidenza che il citato sesto comma inserito nell’art. 67, la cui rubrica è ‘Ammortamento dei beni materiali’, per il semplice motivo che in caso di opzione per l’ammortamento lasciata al contribuente, quel bene può far parte della categoria in rubrica. Ma proprio perché una opzione è tale quando vi siano almeno due scelte possibili, essa acquista un valore contrappositivo e di esclusione. Come a dire: se il contribuente opta per l’ammortamento, il bene rientra nella categoria dell’art. 67, se opta per una diversa soluzione ne è fuori. Basterebbe questo semplice richiamo ai basilari principi della classificazione per concludere che la scelta del contribuente determina due diverse possibilità di regime dei beni. In altri termini: un bene non può più essere classificato ammortizzabile quando l’opzione si è manifestata per un regime che non può essere quello dell’ammortamento. Ma, se non bastasse, si potrebbe analizzare il significato delle parole usate dal legislatore. La locuzione: « deduzione integrale delle spese di acquisizione nell’esercizio in cui sono state sostenute » [2] non può che significare il contrario dell’ammortamento. Nella ragioneria una spesa o è di esercizio o è pluriennale. L’ammortamento serve solo per rendere competente per quote, in singoli esercizi, un costo che ne interessa economicamente una serie. La parola ammortamento viene dall’esperienza del diritto delle obbligazioni, in particolare statali. Ammortamento vuol dire ‘estinzione graduale dei debiti’, almeno così si legge nel digesto e nel vocabolario. Non si ha ammortamento quando si estingue un debito in unica soluzione. Analogamente in termini ragioneristici, se un costo è di esercizio vuol dire che il relativo fattore della produzione è, effettivamente o per convenzione, consumato nel periodo e come tale non può stare in patrimonio.

Si potrà obiettare che se il bene non si è effettivamente consumato e ha un residuo valore, il non tenerne evidenza nel bilancio civile può determinare una violazione dell’art. 2425 C.C. Ma ciò non ha rilevanza, perché o si deve constatare che il legislatore civilistico non ha il pragmatismo o il buon senso di quello tributario e costringe a evidenze anacronistiche in epoche in cui sono già inadeguate le concessioni di questi, oppure si rileva che esiste una contraddizione fra i due regimi, la cui composizione non deve essere compito del diritto tributario, proprio perché norma speciale. Ci offrirà nuove occasioni di biasimo a chi vede nel nostro sistema una struttura a “doppio binario”, ma il problema di una autonoma interpretazione della norma tributaria resta un fatto insuperabile [3].

Gli operatori, che non optano per il regime di ammortamento, dovrebbero essere tranquillizzati sulla inevitabilità di considerare, ai fini della determinazione del reddito imponibile, le spese per acquisti di beni materiali di valore non superiori a un milione come costi di esercizio, non iscrivibili nel libro dei cespiti ammortizzabili, quindi deducibili per il solo transito nel conto dei profitti e delle perdite, senza la condizione dettata dall’ultimo comma dell’art. 75 ed eliminabili senza gli interventi imposti dalla Circolare n. 23/1988.

Di conseguenza il valore dei beni non può concorrere alla formazione della base su cui si determina il massimale delle manutenzioni deducibili del settimo comma dell’art. 67 ed al momento della eventuale cessione l’intero prezzo sarà ricavo e non plusvalenza.

Ovvio che, in caso di opzione per l’ammortamento, i beni seguiranno tutte le regole di quelli di valore superiore sia per gli obblighi di registrazione sia per le aliquote applicabili: ordinarie, anticipate, accelerate, ma mai sar applicabile l’aliquota del 100%, perché questa non è aliquota, cioè anche etimologicamente non è ‘quota’, non è parte.

Si può allora trarre una prima conclusione di valore generale: il sesto comma dell’art. 67 T.U. offre una opzione di regime (ammortamento o costo di esercizio) non di tasso ( x % o 100 %).

In articolo pubblicato nel “Sole-24 ORE” del 30.4.1988 si legge invece che anche i beni di valore non superiore a un milione e per i quali il contribuente ha scelto di caricarne l’intero costo all’esercizio, vi è l’obbligo di registrazione, naturalmente per pari importo, in conti di patrimonio e di fondo ammortamento e ciò in quanto è affermato dal Ministero delle Finanze con la Circolare n. 8 del 10 aprile 1985.

Ritengo di non condividere tale interpretazione e non richiamabile senza adeguate precisazioni la Circolare n.8.

Si è ricordato che il nostro diritto tributario incardinato sulla casistica e non sulla norma generale ed il De Mita ce lo ha ricordato con autorità e con amarezza. Si può non condividere quest’ultima, ma resta un dato di fatto che il nostro diritto tributario corre il rischio di essere costruito unicamente su un contraddittorio tentativo di generalizzare pronunzie emanate su ‘casi’, cioè di rendere generale un sistema che è stato volutamente costruito sul principio della mera elencazione. La motivazione è semplice: l’Amministrazione, che, non bisogna dimenticare, in sostanza è anche il legislatore e forse non è il peggiore dei mali, non ha gran fiducia di sé stessa e preferisce norme senza margini di discrezione, cioè preferisce la lista alla definizione giuridica, la regola matematica ed oggettiva, vincolante anche per sé stessa [4].

Se si auspica la semplicità e si critica il nostro regime fiscale perché troppo complesso, non ci si può poi lagnare quando il legislatore si affida alla meccanica, soprattutto in vista di una normativa comunitaria. Il richiamo delle circolari e di tutte le altre dichiarazioni ministeriali, in cui entrano ormai anche i telegrammi, deve farsi allora particolarmente attento.

Nella fattispecie la circolare n. 8 non può essere utilizzata per confortare la tesi che i beni di costo non superiore a un milione debbono essere esposti in bilancio, in quanto l’argomento è diverso. Il Ministero, sempre pronto al revirement, ha inteso regolare il diverso caso della formazione del prospetto iniziale di imprese provenienti dal regime semplificato che entrano nell’ordinario; imprese, cioè, che alle spalle non hanno una contabilità a cui far riferimento per il controllo della registrazione «….delle plusvalenze in caso di cessione e di eliminazione dal processo produttivo ». Questo lo scopo dichiarato dal Ministero nella circolare.

Ma, a parte la motivazione, non poteva fare diversamente, perché chi era rientrato nella categoria dell’art. 72 DPR 597/1973 non aveva potuto optare per una deduzione intera o per quote, per cui nel momento di cambiamento del regime non si poteva negare una ricostruzione di valori patrimoniali e di contrapposti fondi di ammortamento, cui avrebbe potuto accedere l’imprenditore se fosse stato in regime normale.

È pur vero che nella Risoluzione 19.10.1976 n. 9/1551 l’Amministrazione finanziaria aveva espresso il: «…parere che gli esercenti arti e professioni, nonché le imprese minori possono optare in dichiarazione, mediante espressa manifestazione di volontà, per l’ammortamento a quote annuali dei beni strumentali ancorché di costo unitario non superiore, rispettivamente per dette categorie di soggetti, a lire 500 mila o a lire 1 milione…», ma, in pratica, tale ipotesi è stata subito dimenticata se si constata che nelle istruzioni al modulo 740/G del 1985 per i redditi conseguiti nel 1984 non si leggevano indicazioni in proposito, anzi il rigo G18 era riservato a «costi dei beni strumentali, materiali o immateriali di costo unitario non superiore a un milione» ed il successivo rigo G19 accoglieva le «quote di ammortamento dei beni strumentali, materiali o immateriali, esclusi quelli di cui al rigo G18 »[5], dove non certo riscontrabile una possibilità di opzione.

Quindi, nonostante la citata Risoluzione, il Ministero era rimasto fermo al modello di dichiarazione 1974, primo anno di vigenza dell’art. 72 DPR 597/1973, in cui al rigo 8 del Quadro G si leggeva la perentoria locuzione «quote di ammortamento dei beni strumentali, materiali o immateriali, esclusi quelli di cui al n. 5»[6] [7].

Ma il tenore letterale dell’art. 72 e la ratio di tutto il DPR 597 non consentivano opzioni implicite e quindi interpretazioni come la Risoluzione 9/1551.

Quando il Ministero emanò la Circolare n. 8, doveva essere ben conscio di aver pasticciato sul tema.

Non si spiegherebbe diversamente il senso del passo successivo: « È appena il caso di rilevare che detti beni, ove risultino indicati nel registro dei beni ammortizzabili con riferimento al 1x gennaio 1985 concorrono a formare il costo complessivo ai fini della deduzione delle spese di manutenzione, ecc., di cui all’ultimo comma dell’art. 68 del D.P.R n. 597». Il significato del verbo congiuntivo chiaro, ma anche possibile constatare che la Circolare inizia l’elenco delle partite da indicare nel prospetto con la locuzione: «… I valori da indicare nel prospetto vanno assunti...». Il verbo ‘dovere’ è abilmente evitato e sostituito da un più possibilista ‘I valori da indicare’.

Ma si deve anche osservare che la tesi esposta nel citato quotidiano non è isolata se si ricorda che già al momento dell’emanazione del DPR 597/1973, si sono letti commenti a favore della tesi di un ammortamento immediato per beni di costo non superiore a cinquantamila lire[8].

Pare sia stata trascurata la Relazione governativa al DPR 597/1973 che sul sesto comma dell’art. 68 si era così espressa: «Una innovazione nei confronti della legislazione attuale consiste poi nell’ammettere per i beni il cui costo unitario non supera lire cinquantamila la deduzione integrale dei costi nel periodo d’imposta in cui sono stati acquistati. La norma dettata dall’intento di avvicinare quanto pi possibile la determinazione del reddito fiscale alla realtà economica. Si tratta, in genere, di beni che devono essere rinnovati rapidamente, quali l’attrezzatura varia e minuta, che ben possono essere considerati interamente a consumo annuale, e che, pertanto, vanno, esclusi, anche per ragioni pratiche, dalla ripartizione in più quote di ammortamento».

Allora, si deve riprendere il passo della Relazione governativa al sesto comma dell’art. 67 T.U., con cui si motiva la norma non tanto per la sua adeguatezza al corrente valore della moneta, ma per equità ad altri regimi in cui, ed il caso dell’art. 50 non esiste nemmeno la previsione di tenuta del registro dei cespiti ammortizzabili. Peraltro valgono le stesse ragioni di semplicità e di praticità già esposte nella Relazione governativa all’art. 68 dell’abrogato DPR 597/1973.

Ma se, per l’art. 12 delle Preleggi, l’interpretazione del diritto deve affidarsi anche all’intenzione del legislatore, si deve pur constatare che non sarebbero proponibili due ipotesi:

– che si sia voluto condannare comunque le grandi imprese manifatturiere alle spese di contabilizzazione nel libro dei cespiti anche dell’emblematico cacciavite, spese superiori al costo del bene stesso. Quella del sesto comma dell’art. 67 diverrebbe un caso di ‘opzione impossibile’. Ma l’impossibilità può essere creata dal ‘gestore’ della norma, non dal legislatore che, almeno in apparenza, deve sempre dimostrarsi rispettoso dell’etica;

– che l’Amministrazione finanziaria, anche ‘legislatore’, si sia autolesa riconoscendo a costi di esercizio la possibilità di costituire base di calcolo del plafond annuale di spese di manutenzione interamente deducibili e di generare plusvalenza ripartibile in dieci esercizi, anche quando lo stesso contribuente abbia optato per un regime di semplici costi e ricavi di esercizio[9].

Pietro Bonazza


[1] E. De Mita : “Interesse fiscale e tutela del co”