Efficienza, secondo il senso comune, è l’idoneità di una azione a produrre un “effetto” voluto, che trasposto in economia e trascurando l’efficienza marginale del capitale di Keynes, assume quattro significati principali: efficienza dell’intero sistema economico, allocativa, non allocativa, di processo produttivo [1] . Qui si intende accennare all’ultimo con estensione dalla singola impresa al settore di appartenenza, anche per affermarne il grado di dipendenza dagli altri.

Ogni definizione è sempre una limitazione, ma è il prezzo da pagare per il superamento dell’indeterminato. Leggiamo nel “Dizionario di economia” di Sergio Ricossa: «… due fabbriche che, per ipotesi, abbiano la stessa dimensione, gli stessi impianti e macchinari, e la stessa manodopera, ma diano produzioni diverse in quantità (non in qualità) sono diversamente efficienti; e, ben inteso, quella con la maggior produzione è la più efficiente. Si vede qui un nesso tra efficienza e produttività. Alcuni autori, infatti, identificano i due concetti; altri impiegano il termine di efficienza per identificare la produttività globale, dell’insieme dei fatti produttivi, e riservano il termine produttività ai casi in cui si considera un solo fattore produttivo per volta (il lavoro, per esempio), sicché si dirà produttività del lavoro, ma efficienza della fabbrica » [2] . Questa definizione, ma anche altre analoghe, stimolano le domande correlate: sono efficienti le imprese manifatturiere italiane, anche intese come settore? Se in modo insoddisfacente: perché?

In un’economia chiusa (il monopolio potrebbe essere inteso come un caso di economia chiusa) e sul piano macroeconomico, l’inefficienza è un giudizio di scarso rilievo, perché genera in prevalenza solo trasferimenti da gruppi di soggetti economici ad altri; semmai ne risentirà il grado di soddisfazione dei consumatori e la qualità della vita o addirittura la sopravvivenza (carestie ecc.). Ma, in un’economia aperta, oggi addirittura globalizzata o mondializzata, l’inefficienza di un’impresa manifatturiera porta alla sua eliminazione dal mercato, perché diventa presto incapacità di sostenere la concorrenza con le imprese internazionali dello stesso settore. L’inefficienza di un settore nazionale determina la rapida sparizione di intere produzioni. La constatazione può estendersi ai settori di un’area continentale, come la U.E. Si pensi, per esempio, a quanti prodotti l’economia europea ha dovuto rinunciare a favore delle “tigri asiatiche”! Da qui e almeno in parte: i fenomeni di disoccupazione comuni alle economie degli stati europei. Il problema, da microeconomico diventa sociale e politico, perché l’inefficienza è innanzi tutto l’effetto di cause sociali e politiche.

Alla prima domanda è difficile dare una risposta, in mancanza di dati, peraltro difficili da rilevare ed elaborare e che imporrebbero paragoni con settori analoghi di altri paesi  osservati con omogeneità di classificazione e valutazione. Si potrebbe far ricorso all’indicatore indiretto dell’export: se le imprese italiane continuano a esportare, nonostante il cambio non più favorevole, debbono pur avere una efficienza, anche non palese, che consente questo risultato. Ricordiamo però che vendere non vuol dire guadagnare e che anche le imprese in stato fallimentare e quelle statali continuano a commerciare pur producendo perdite. Il problema è un altro: il paragone tra il conseguito e il possibile. Su questo punto non vi sono incertezze: la macchina della produzione italiana è inefficiente, perché potrebbe realizzare molto di più, con vantaggio per la remunerazione del capitale, del lavoro e dello stesso gettito fiscale. Peraltro, la crisi economica mondiale del 2008 non ancora metabolizzata, ne è una prova evidente: l’economia italiana non si è dimostrata certo una delle più rapide all’adeguamento imposto dalla crisi, forse anche perché sono mancati nel recente passato adeguati investimenti in capitali, ma, soprattutto in organizzazione.

Qui si innesta la seconda domanda: perché l’inefficienza? Bisogna distinguere le cause esterne all’impresa e al settore da quelle interne. Per capire le prime è opportuno rilevare che nelle economie attuali è crescente il peso dei servizi che l’impresa manifatturiera deve acquisire all’esterno e, in Italia, quelli offerti in regime di monopolio dallo Stato. è ovvio che l’inefficienza dei servizi statali, che si esprime nei maggiori costi o nella minor qualità rispetto a quelli fruiti dalle imprese concorrenti straniere, si ripercuote sui costi di produzione e aumenta la pressione fiscale, perché l’inefficienza della macchina statale diventa, in sostanza, un’imposta occulta. Si pensi, per esempio, alla inadeguatezza dei trasporti e della rete stradale, soprattutto al Nord; alle inefficienze del nostro servizio postale; al maggior costo dell’energia elettrica prodotta e distribuita dall’Enel; al prezzo dei prodotti petroliferi sovraccaricati di oneri fiscali; ai maggiori costi dei servizi bancari e ai sistemi dei pagamenti; alle pastoie dei servizi burocratici; ecc. Questi fenomeni entrano nei costi delle imprese, che sono costrette a sostenerli, con peggioramento della loro capacità concorrenziale, se si ipotizza che la formazione dei prezzi avvenga con il criterio del mark-up [3] , oppure con riduzione del profitto o con incremento delle perdite, se si pensa, con maggior realismo e almeno per le imprese italiane raramente price maker [4] , che il prezzo di mercato sia fatto dalla concorrenza internazionale. Certo vi sono anche cause interne all’impresa e al settore: la capacità e la prontezza delle imprese nel cogliere le opportunità dei mercati; la loro organizzazione; la preparazione del management; la professionalità dell’imprenditore; il know-how; l’efficienza-X [5] , condizioni in buona parte riassumibili nel fattore O.I. [6]  .

Può essere fondato il sospetto che abbiano avuto maggior peso le cause esterne al settore, perché se vi fosse anche una presenza generalizzata di quelle interne, l’industria italiana non esisterebbe più e, fortunatamente, questo non si può ancora dire. Conferma l’ipotesi: il diffuso riconoscimento degli operatori esteri delle capacità tecniche (quelle politiche sono altra cosa!) dei nostri imprenditori. In Francia li chiamano les italiens, con un misto di disprezzo e di timore, come dimostra, per esempio, l’industria degli spumanti. Ironia della sorte dei transalpini: per secoli si sono ubriacati delle loro bollicine, poi sono venuti les italiens e proprio con le bollicine cisalpine devono smettere le loro napoleoniche ubriacature.

Come si nota, il problema dell’inefficienza di settore, effetto di cause politiche e sociali, restituisce ai pubblici poteri i guai che gli stessi hanno provocato. Alla fine a pagare è l’intera collettività in termini di disoccupazione e mancata crescita o maggior povertà. Il tanto strombazzato welfare-state diventa allora l’illusione dei poveri e la generalizzazione del no-profit, che tanto sta riempiendo la bocca delle anime semplici e dei furbacchioni, che le guidano.

Ma, l’Italia è ricca di specialisti della chiacchiera, capaci di sviare l’attenzione dai problemi veri, finché il popolo li crede o finge di credergli. Intanto, meglio parlare dei massimi sistemi: una specie di efficienza del bla bla, che ha il vantaggio di lasciare sempre le cose e gli uomini come e dove sono.

 

[1]   si veda G. Bannock, R.E. Baxter, R. Rees, Dizionario di economia, Laterza, 1977, voci “efficienza”.

[2]  S. Ricossa, Dizionario di economia, UTET, 1982, pag. 173. Considerando che una “funzione della produzione” si risolve in una mera esercitazione intellettuale, non è un caso che Ricossa, pur ferrato in matematica, ma economista assai pragmatico, non dia una definizione che trascinerebbe con sé una funzione di produzione.

[3]  Quella generalizzata che il prezzo di mercato sia determinato dall’impresa aggiungendo ai costi una percentuale di guadagno è un’idea fissa del prof. Paolo Sylos-Labini, che vedeva oligopoli dappertutto, dimenticando che la globalizzazione dell’economia li ha spazzati via in gran parte, soprattutto nel settore della produzione di beni. Si vedano: M. Marrelli, Imposte dirette e indirette in un modello distributivo di inflazione, in “Problemi di finanza pubblica”, Giuffrè, 1976, pag. 153; S. Ricossa, Dizionario di economia, Utet, 1982, pagg. 226 e 375; P. Samuelson, Economia, Zanichelli, 1987, pag. 523.

[4]  Per la nozione di impresa price maker si veda Tibor Scitovsky, Intuizioni e teorie economiche, in “Moneta e Credito”, 1991, n. 175, pag. 281.

[5]  “Enciclopedia di Economia” Garzanti, voce “efficienza-X”: «contributo alla produzione dovuto a fattori non considerati tra gli input nella funzione di produzione. Il fatto che a date quantità di input corrisponda una quantità massima di output può dipendere da diverse circostanze: le conoscenze tecnologiche in senso stretto sono solo approssimative, i dirigenti dell’impresa hanno margini di scelta nel mettere a punto l’organizzazione delle attività dell’impresa, i contratti di lavoro specificano solo parzialmente i compiti dei dipendenti, e così via. Da ciò consegue che l’impresa in cui vi siano per dirigenti e dipendenti, più motivazioni a intensificare rispettivamente gli sforzi per l’acquisizione di conoscenze tecnico-organizzative e quelli lavorativi godrà, a parità di input, di un prodotto maggiore. Ed è questo maggior output che misura l’efficienza-X dell’impresa».

[6] CRIVELLINI, “Produttività e competitività nell’industria  italiana”, pag. 27: «la limitazione di risorse O.I. determina un effetto sostituzione (trade-off) tra: crescita dell’efficienza e aumento dei fattori produttivi impiegati. Cioè  quando l’imprenditore è insufficiente si possono anche incrementare impieghi di fattori produttivi, ma la produttività non incrementa, anzi oltre un certo punto diminuisce perché non c’è nessuno che coordina i fattori».