La vita dell’uomo è costellata di problemi che gli irrompono addosso e percuotono la sua essenza e la sua esistenza, talvolta facendo scempio del suo fragile equilibrio. Non conta che la loro provenienza sia dall’esterno oppure endogena, creando uno sdoppiamento di personalità: la parte che crea il problema e l’altra che si propone di risolverlo. Ma l’uomo stesso a sua volta è problema che investe la vita sociale, posto che Aristotele già osservò che l’uomo è un animale politico, cioè legato alla polis quindi sociale (Aristotele, Politico).

La vita dell’uomo e del suo essere nel sociale, nella collettività, cui lo avvincono tanti legami, fino al massimo livello che è il formare una nazione tra uomini che hanno denominatori comuni, possono, allora, essere riassunti in un concetto di sintesi: l’uomo senza il problema è morto, il problema senza l’uomo è inesistente.

Gli uomini possono essere distinti in due categorie: quella di chi il problema lo vuol risolvere anche a costo della vita, quella di chi si consegna al problema. A ben vedere, la storia dell’umanità è racchiusa in questa coppia. Le guerre e le paci, le vittorie e le sconfitte, l’umanesimo e l’antiumanesimo, il bene e il male, la salute e la malattia, la vita e la morte, sono modi contrapposti di porsi davanti al problema.

Kant si illuse di risolvere il dilemma ponendo la distinzione tra fenomeno e noumeno, ma cacciandosi nel vicolo cieco del “sono i problemi che condizionano la nostra capacità di rappresentarli”. Così non si risolve niente. Si resta al palo! Al punto di partenza! Forse miglior esito ha il tentativo di Schopenhauer, che, senza rinnegare Kant, lo ha assorbito nel suo volontarismo, che, proprio per la sua irrazionalità e oggettività, io traduco in “vitalismo”, che, in totale contraddizione per le sue simpatie del buddismo, è, invece, la massima esaltazione del senso occidentale della vita dell’uomo: la volontà di risolvere a ogni costo ogni problema. In sintesi e a ben vedere, Schopenhauer si potrebbe definire: una vita di lotta contro se stesso, una trasvalutazione di se stesso. Nietzsche ha giocherellato sul concetto, ma il vero creatore del “superuomo” è Schopenhauer che non intende, però, a differenza del suo finto allievo, trasvalutare i valori, ma affrontare l’impari lotta contro le forze che lo vorrebbero sopraffatto, mediante una volontà feroce, che non è sete di dominio, ma voglia di sopravvivere.

E che è il porsi davanti al problema con intento di risolverlo, se non una volontà di sopravvivenza! Già in ciò sta la vittoria: un risultato minimale, secondo l’insanabile pessimismo di Schopenhauer. Dante ci arrivò più di sei secoli prima con la figura dell’Ulisse del XXVI canto dell’Inferno: una vita senza problemi non merita di essere vissuta. Andiamo a vedere che cosa c’è dietro le Colonne d’Ercole! Andiamo a vedere che cosa si cela dietro la tenda. Questo è il vero problema se “fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e conoscenza”. Cioè il problema dell’uomo è il suo porsi davanti a ogni problema e, allora, se così è, vuol dire che è l’uomo il problema dell’uomo, la cui soluzione è nella consapevolezza delle proprie capacità e nella valutazione delle difficoltà che il problema pone; è una valutazione del rapporto tra causa ed effetto. Ma all’origine ci deve essere la consapevolezza di sé, cioè il monito del tempio di Delfo: “Uomo conosci te stesso”. L’essere nel sociale altro non è che un raffronto tra uomini posti di fronte allo stesso problema: i contrasti fino all’esito rivoluzionario, la cooperazione fino alla fratellanza, la comprensione fino alla carità, la speranza comune, sono espressioni del porsi del problema e dei tentativi di soluzione o di negazione.