È accaduto di giovedì, perché, come dice il proverbio, Dio non paga il sabato e i giudici nemmeno, soprattutto perché rispettano la settimana corta. Cesare non avrebbe voluto proprio riceverla quella moneta, ma con la Corte del Cassaz non puoi rifiutare, perché il suo giudizio è inappellabile, a meno di chiamarsi Sofri e, allora, puoi provarci almeno un paio di volte, anche se poi alla fine c’è il rischio che non cambi nulla. Ma qui non si può nemmeno tentare, perché sul falso in bilancio, come sugli altri cosiddetti “delitti di natura economica”, i giudici sono inflessibili. Si sentono moralizzatori, perché la fede pubblica è più intangibile della fede in Dio. Sul resto si può pronunciare un bel transeat e così il pedofilo, per esempio, può riprovarci all’infinito. Ma uno che sbaglia una posta di bilancio “deve” pagare, perché lì, nella materia più elastica e tutto sommato innocua, infrangere una regoletta, magari discutibile e priva di ragione economica, è offesa alla “chiarezza”, quindi alla collettività, soprattutto di quella che specula in borsa e in un giorno può giocarsi anche la camicia, ma guai a fargli leggere un bilancio non a rigorosa forma di legge, che comunque non capirebbe nemmeno se fosse scritto in dialetto. No, questo è intollerabile! Non sia mai! Tutti voi amministratori, sindaci e loro consulenti ispiratori, assimilabili ai collusi di mafia “per concorso esterno”, in galera dovete andare. Non potete nemmeno pentirvi; semmai, potete redimervi con gli insegnamenti di una buona assistente sociale e se il beneficiario è un partito, non di sinistra o che non fu di sinistra, con voi deve scontare anche l’ex segretario (vedi il Forlani), a cui si debbono negare benefici e riti abbreviati, concessi al primo ladro di polli che capita in un’aula di giustizia per l’ennesima volta. Hanno avuto un bel sostenere tesi contrarie vecchie e nuove, sbracciandosi a destra e a manca, gli avvocati dell’ex capo-Fiat. Gridavano sulle carte processuali che 35 miliardi di finanziamento illecito ai partiti su una montagna di miliardi di fatturato dell’intero Gruppo dell’auto indigena è solo lo 0,008 per cento. Niente da fare! Fosse stata anche una lira! Perché non è questione di lire, ma di principi, anzi di teoremi e soprattutto di quello più à la page: “non poteva non sapere”! Così è accaduto che giovedì 19 ottobre un Cesare poco Gaio, niente Giulio, ma molto Romiti, si sia visto condannare a un anno e venti giorni per quel benedetto articolo 2621 del codice civile, con cui la magistratura pensa di cambiare la società italiana (ma vahh!). Certo è che la carriera del Cesare è finita, soprattutto in Mediobanca, dove aveva speranze. Però ha un figlio e l’eredità non andrà perduta, come accadde all’omonimo delle Idi di marzo, che lasciò dietro di sè un Augusto. Debbo ammettere che a me, abituale perito penale in assistenza di amministratori e sindaci responsabili di bilanci senza tanti zeri, rimasti in braghe di tela e altrettando abitualmente condannati nonostante sforzi avvocateschi e peritali, di Cesare Romiti importa niente. Qualche mio assistito potrà forse confortarsi con vecchi adagio del tipo “mal comune mezzo gaudio”, “la giustizia è uguale per tutti” e altre cavolate del genere, che ti lasciano comunque nel tuo brodo personale. Per me, incorreggibile individualista, vale solo l’adagio “ognuno si gratti le sue croste”. Però, al di là del diritto penale, di cui non capisco più nulla, dopo aver creduto invano nel principio della proporzionalità della pena, una riflessione mi lascia perplesso: Cesare Romiti, a giudicare dallo stipendio annuo e dalla montagna di miliardi di buona uscita alla fine del suo mandato, è stato certamente l’anima della Fiat e se mamma Fiat ha sbagliato, l’errore lo deve pagare il suo princeps. Però è difficile scansare di conciliare il tutto con il fatto che il suo vero “padrone” sia a Palazzo Madama a fare il “senatore a vita” e ogni giorno impartisca insegnamenti alla nazione su come vivere e come vestirsi. Non mi vengano a dire che il Presidente della Fiat è come il Presidente della Repubblica, che per dettato costituzionale non è mai responsabile degli atti compiuti dal governo, per almeno due motivi: perché il Presidente della Fiat non è eletto dal Parlamento, ma da se stesso e perché, mentre il Presidente della Repubblica deve accettare il premier che gli passa il Parlamento, il Consigliere Delegato della Fiat se lo sceglie l’Avvocato in una casa dorata di Parigi o su uno yacht che “baffino” se lo sogna di notte. E allora? Si dirà che l’Avvocato è un presidente solo morale. Va bene: però quella sentenza lo riguarda almeno sul piano morale. Ma sono cose che non toccano noi, che ai partiti non solo non avremmo dato le nostre personali lire, ma avremmo tolto anche quelle che gli passa lo Stato. È una questione tra Cesare Agnelli e Giovanni Romiti.