L’occhio non è l’anima, ma ne è lo specchio. Così la moneta non è l’economia, ma la rivela. Gli economisti tifosi della spesa, che si rifanno a Keynes e in Italia abbondano, sostengono il contrario.
Samuelson, Nobel 1970, racconta che James Tobin, Nobel 1981 e noto per la sua onestà intellettuale, in un simposio accademico sulle teorie di Friedman (Nobel 1976) scrisse alla lavagna tre proposizioni: a) la moneta non ha importanza; b) la moneta ha importanza; 3) solo la moneta ha importanza. Per Tobin è vera la seconda. Condivido, ma precisando che la moneta rischia di avere importanza solo negativa, nel senso che è uno strumento insostibuibile, ma, come le forbici, non si deve mettere in mano ai bambini, cioè ai politici e ai loro ispiratori accademici, invece a tecnici seri e distaccati, che si chiamino Greenspan, Duisemberg, Fazio, Trichet, non fa differenza, perché in concreto si comporteranno allo stesso modo e useranno lo strumento dei tassi di interesse più per soddisfare la platea che per convinzione sulla utilità. Per un’economia mondializzata e una finanza ingovernabile ci vuol altro che l’alchimia dei tassi. In Italia abbiamo economisti, che continuano a invocare tiremmolla (loro lo chiamano con saccenteria fine tuning) e ancora non hanno capito che il giocattolo del tasso serve più agli speculatori di borsa per parare gli errori di ieri o guadagnare domani. Del posdomani non si preoccupano, perché la loro dimensione temporale non va oltre le ventiquattrore. Le crisi degli ultimi dieci anni: sudamericane, asiatiche, russe, messicane e quella argentina in corso sembrano non insegnare nulla. Non sarebbe tutto bello, anzi fine, dare un colpettino a destra o a manca con i tassi e aggiustare tutto? Ci vuol altro e persino Bertinotti e Cofferati sarebbero d’accordo!
Questa premessa spiega perché l’euro, dopo i trionfi della sostituzione fisica delle monete nazionali, continua a essere sempre più debole contro il dollaro, specchio di un’economia statunitense, che non è sulla cresta dell’onda, ma dietro ha una nazione e una politica omogenea e coerente, criticata dagli europei, ma condivisa dagli americani.
La crisi argentina attesta poi una realtà economica: una moneta agganciata a un’altra a cambio fisso, conferma che la proposizione a) è falsa, come ha sostenuto Tobin ed è vera la b), per il rischio di danni da cattivo uso.
Gli euroentusiasti italiani hanno dimostrato di preferire la terza. Auguriamoci che abbiano ragione, se no dovremo darla, de residuo, a Martino.
Il nucleo del discorso è in un concetto, in sé condivisibile e auspicato dagli europeisti veri come noi: l’economia mondiale ha bisogno di due monete di riferimento, non necessariamente antagoniste, ma che possano darsi il cambio secondo il momento storico o il ciclo economico. Persino gli americani sono stufi di avere un dollaro forte, perché il prezzo da pagare è troppo alto, se dura troppo a lungo. Anche loro hanno bisogno di sganciare merci sul mondo e non solo bombe! Non possono fare da unica locomotiva a un treno omnibus, anche perché, se questa rallenta, il convoglio, economia dell’euro compresa, rischia di fermarsi. Ma dietro ogni biglietto di carta ci deve essere “una” economia, gli americani direbbero con giusto orgoglio “una nazione” o “una politica”; conta poco se a rappresentarla è un birichino come Clinton o un dolente come Bush. Dietro l’euro, ci sono le politiche di Jospin e Schröder (Blair, fa il dolmen di Salisbury), che ora, essendo in difficoltà per motivi di elettorato personale, premono perché si cambi il “patto di stabilità”. E il risultato sull’euro si vede e alla fine, piaccia o no, ha ragione Martino.
Quindi, per gli equilibri economici e politici del mondo occorrono due monete e dietro, due economie e due politiche. È l’ineluttabile forza del duale: non si possono avere due monete e una sola politica, quella americana.
In questo quadro, che mi pare logico e di buon senso, confortato dalla storia e dalla realtà in divenire, si inserisce la teoria di Mundell, Nobel 1999 per i suoi studi di economia monetaria internazionale. Mundell, basta guardarne l’immagine, è un pasciuto, sorridente e soddisfatto canadese, che sprizza confortante ottimismo. Pochi giorni fa ha affermato che l’euro va verso la parità (infatti, si vede!) e nel novembre del 2000 ha rilanciato l’idea di una moneta unica, che unisca Usa, Giappone ed Europa. Questo cosmopolitismo monetario non ci stupisce, perché Mundell ha dichiarato che la crisi dell’Argentina, agganciata per dieci anni al dollaro con parità fissa, non è monetaria, ma politica. Se la logica ha ancora un senso, si può affermare che, se la crisi del tango=swing non è di origine monetaria, ma politica, allora vale la proposizione a) di Tobin, che la moneta non ha importanza; ma se la moneta non ha importanza, anche una moneta unica mondiale non ha importanza (e allora: perché proporla?), mentre ne ha la politica. La conclusione è che, alla fine, avrebbe peso solo la politica statunitense e finiremmo per “dollarizzare” l’Europa, dopo averne fatto una colonia linguistica dello slang, una subcultura televisiva e alimentare a base di filmetti polizieschi e giudiziari, sandwich e sciacquatura gassata. Certo l’America è anche altro! È soprattutto la nazione che ha dimostrato di essere “una” dopo l’11 settembre. L’Europa non riesce a essere “una” con la sua moneta, cioè con se stessa. Come potrebbe essere “una” con il dollaro?
Professor Mundell, lasci stare. Si goda il suo meritato Nobel. Noi europei, e forse lei occupato nelle monete non lo sa, siamo ancora fermi alle “guerre di religione”. Lo scannatoio è l’unico mercato che sappiamo far funzionare veramente bene. Quanto all’ottimismo, è bene considerare che può essere una malattia, causa di errori e di risvegli da infarto, come l’America delle macerie delle torri gemelle. Mai abbassare la guardia, o come si legge nel Vangelo: estote parati.
Articolo pubblicato anche in “ItaliaOggi” del 30 gennaio 2002 .