Devono aver scarsa sicurezza in se stessi i giudici, se nelle aule sentono il bisogno di una scritta: in alcuni casi un memento, in altri una speranza. Per me sarebbe più rispondente al vero, se la giustizia fosse distribuita (dicono: amministrata) in un capannone con pareti grigie senza scritte proclamanti, con mobili di formica come nei seggi elettorali e da giudici e avvocati in canottiera e bermuda. Forse, togliendo un po’ di liturgia e di sacralità, la giustizia si sentirebbe più semplice e i giudici meno pretenziosi.

Leggo su una parete di aula statunitense: “In God we trust”. Ma quale Dio? Nelle intenzioni è sicuramente Quello che sta nei cieli, ma, loro, gli americani, il God lo mettono anche sui dollari. “Noi confidiamo in Dio”, ma quante ingiustizie commettono i giudici americani nonostante il trust in God!

Leggo su una parete di aula italiana: “ La legge è uguale per tutti ”; una mera tautologia. Innanzi tutto, a chi è rivolta quella scritta? Ai giudicati, al pubblico, ai giudici? Solito nominalismo italico. Non si sa mai di cosa si sta parlando e con chi. Ai giudicati no, perché nessuno di loro ci crede, anche se tutti, soprattutto se assolti, si precipitano ad affermare la loro fiducia nella giustizia. Solite ipocrisie. Al pubblico no, perché il pubblico non vuole che la legge sia uguale per tutti, vuole che sia sancita la condanna di chi ha già giudicato colpevole. Ai giudici no, perché ritengono di essere loro la legge, come se un officiante della Messa ritenesse di essere il Cristo, per il solo fatto che ne sta celebrando la morte e la Resurrezione! “La legge è uguale per tutti” è anche un’affermazione. Esprime certezza e imperiosità. Come a dire: tu giudicato, sii certo che la legge non fa differenze. Già! Ma le differenze le fa, invece, il giudice, perché per qualcuno la legge è più uguale che per altri. E poi non disse quel furbo, ma concreto Giolitti, che la legge si applica per gli avversari, mentre si interpreta per gli amici?

Il nodo sta proprio qui: nell’interpretazione, che rende impossibile l’uguaglianza e ci rimanda a riflessioni più meditate.

Montesquieu, non è stato quell’originale che i francesi han voluto far credere al mondo. Ha derivato, se non copiato da Locke e dalla costituzione inglese (è lui stesso a riconoscerlo con grande onestà intellettuale); ma questo è normale; nessuno inventa; tutti siamo tributari di qualcun altro e così in una catena risalente alle origini dell’uomo. Però il bordolese ha già avuto un merito incommensurabile, titolando il suo capolavoro “Esprit de lois”, perché apre una domanda: la legge ha veramente uno spirito, che è qualcosa di diverso dalla sua ratio? E se esiste uno “spirito” della legge, esso è praeter legem o è in legem? Nel primo caso bisogna affidarsi alla formazione culturale del giudice, alla sua sensibilità, al suo essere nel mondo e capire la vita, alla sua fede nell’ultraterreno, alla sua capacità di chinarsi sull’uomo, alla sua sensibilità di capire e carpire l’esprit de lois e di resistere alla pressioni politiche anche derivate da opzioni personali, perché l’esprit è qualcosa di superiore a tutto questo. Nel secondo caso, l’in legem, si tratta di processo di ermeneutica, di tecnica interpretativa e, allora, bisogna addestrare i giudici, ma prima che lo diventino, a essere dei buoni artigiani, capaci di smontare e rimontare la legge, come fosse un marchingegno, un motore, un orologio, senza che alla fine, come a un bricoleur  inetto, avanzino viti e pezzi. Però, a scavare sotto la crosta, si potrebbe scoprire che Montesquieu, nonostante il suo illuminismo, è ricaduto nel naturalismo o, trattandosi di legge, nel diritto naturale. Perché l’esprit, gira e rigira, è ancora ciò che, partendo dall’uomo natura o da Dio, entra nel diritto positivo e la divisione dei poteri è solo uno strumento per realizzare la trasparenza dell’esprit. Se questo è Illuminismo, allora, i cari francesi o non hanno capito niente del loro idolo, oppure la famigerata Révolution non era un derivato dell’Illuminismo, il che spiegherebbe tante cose e soprattutto le contraddizioni, in cui cadono da secoli i transalpini. Ma c’è un’altra spiegazione. Montesquieu si sentiva veramente francese? O più estesamente: i bordolesi si sentono francesi fino in fondo? Parigi e Bordeaux, si pongono come alternative. Ancora: Bordeaux avrebbe mai elevato a suo simbolo un castello di carpenteria metallica come la Tour Eiffel? Il grande Montesquieu ha avuto il buon senso di morire per tempo, perché, se fosse vissuto all’epoca di Robespierre, i Giacobini avrebbero trovato argomenti per tagliargli la testa. Questa è stata la Révolution!

 No! Decisamente “la legge non è eguale per tutti”, nemmeno in Francia, dove stanno ancora cercando l’esprit.