(Questo articolo di Pietro Bonazza è stato pubblicato sulla rivista “Bollettino Tributario”, 15.11.2002, n. 21)
1. Principi generali dell’ordinamento.

I giuristi pratici non trovano tutto scritto e preconfezionato nel complesso delle leggi che devono applicare; ma anche quando lo trovano non possono dimenticare il brocardo etiam in claris fit interpretatio, poiché ogni sentenza è sempre la conclusione di un processo ermeneutico su norme che, normalmente, hanno portata generale, quindi astratta. Proprio questa natura della norma può determinare, in singole fattispecie, risultati di summus ius summa iniuria e il giurista, che ne avverta l’irragionevolezza, può trovare riferimenti di correzione nei principi generali dell’ordinamento. Purtroppo non mancano i rischi, perché raramente i principi trovano esplicita affermazione; invece, sono annidati nell’ordinamento e l’opera di estrazione non è immune da valutazioni soggettive.
In diritto l’operazione che deduce un principio si conclude con una definizione, più o meno esplicita non scevra di rischi come avvertivano i giuscivilisti romani che avvertivano: «omnis definitio periculosa est in iure civili ». In diritto pubblico sarebbe ancora peggio!
Il nostro legislatore ha espresso la sua prudenza nell’art. 12 delle “Disposizioni sulla legge in generale’) che relega all’ultimo posto il criterio interpretativo sulla base dei principi generali dell’ordinamento, non a caso non indicati nell’art. 1 tra le fonti del diritto. Perché tanta prudenza negli anni ’40 del Novecento, quando la fiducia nello Stato e in ogni sua espressione era massima? Perché il nostro codicista avvertiva il rischio che sul principio si costruisse un dogma giuridico.
Altrettanta prudenza sembra non l’abbia avuta il legislatore costituzionale del dopoguerra che un principio generale lo ha addirittura scritto nell’art. 53 della Costituzione, il cui abuso reiterato sembra dar ragione al legislatore del codice civile. Si potrebbe considerare che l’estrazione di un principio generale dalle norme che costituiscono l’ordinamento, già comporta la necessità di passare attraverso la fase della costruzione di un “sistema” e questo è già un pericolo, mentre l’esistenza di un principio scritto come quello di “capacità contributiva” sembrerebbe sollevare l’interprete da certi rischi, perché basta applicarlo, sic et simpliciter! Però bisognerebbe che fosse inesistente l’uso “politico” di un principio costituzionale, espresso, come quello dell’art. 53, con termini che possono significare tutto e il contrario.
Per verificare se questa osservazione è o no fondata basta valutare, con senso di realismo, l’applicazione fatta in concreto, persino per giustificare la retro attività della legge tributaria. Le sentenze 20.7.1994, n. 315 e 27.7.1995, n. 410, per limitarci al tema dell’esproprio, sono esempi di contorsionismo per appoggiare con preconcetti leggi indifendibili (1). Non mancano casi di uso improprio del principio o richiami inutili e pericolosi, come nella recente sentenza sull ‘IRAP dei lavoratori autonomi.

2. La sentenza 21 maggio 2001, n. 156 della Corte Costituzionale

Con la sentenza n. 156, la Corte costituzionale ha esaminato una serie di questioni sulla legittimità dell’IRAP sollevate da lavoratori autonomi. Che il tributo sia un esempio di irrazionalismo fiscale lo ha sbandierato lo stesso ministro delle finanze venuto dopo il suo inventore, anche se poi l’ordine all’Amministrazione finanziaria di operare con intelligenza in attesa dell’abolizione non l’ha ancora impartito, vista la Risoluzione min. 31.1.2002, n. 32/E, che qui non viene considerata, perché interpretazione chiaramente di parte. Che la Corte costituzionale, con tutti i limiti politici che la connotano compreso quello della “ragion di stato”, non potesse fare tabula rasa, era scontato e il risultato è il riconoscimento di legittimità del tributo, fatto salvo il caso di quei contribuenti non “autonomamente organizzati”.
Della sentenza costituzionale merita attenzione il § 9.2. in cui la Corte scrive:
« Va innanzi tutto ribadito che 1’lRAP non è un’imposta sul reddito, bensì un’imposta di carattere reale che colpisce – come già si è osservato – il valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate.
Non riguardando, dunque, la normativa denunciata la tassazione dei redditi personali, le censure riferite all’asserita equiparazione del trattamento fiscale dei redditi di lavoro autonomo a quello dei redditi di impresa risultano fondate su un presupposto palesemente erroneo.
L’assoggettamento all’imposta in esame del valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività autonomamente organizzata, sia essa di carattere imprenditoriale o professionale, è d’altro canto pienamente conforme ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva…
È tuttavia vero – come taluni rimettenti rilevano – che mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro.
Ma è evidente che nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione – il cui accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto – risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, secondo l’art. 2, dall’«
esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o alla scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi », con la conseguente inapplicabilità dell’imposta stessa.»
Si rileva che l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 15.12.1997, n. 446, istitutivo dell’IRAP, ha asserito formalmente che “L’imposta ha carattere reale… “. La Corte Costituzionale sbaglia motivazione quando cerca di sostenerne la legittimità ricorrendo al “principio di capacità contributiva”, che non può avere collegamenti con un tributo reale, a meno di capovolgere il significato di quel principio. Infatti l’IRAP – ed è questa l’assurdità di tale imposta – viene pretesa anche da chi non consegue reddito. Basta constatare quanti contribuenti che lavorano in perdita sono costretti a pagare l’IRAP. E, allora, vien da chiederci, la capacità contributiva la manifestiamo con le perdite?
Si nota che la sentenza non ha svolto alcuna indagine veramente approfondita sul presupposto dell’imposta, limitandosi a riportare il testo letterale dell’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, nella versione modificata dal D.Lgs. 10 aprile 1998, n. 137, che dopo “attività” ha inserito le parole “autonomamente organizzata”. Ciò significa che come analisi della ratio della norma la sentenza costituzionale si limita, in pratica, a costituire un invito all’Amministrazione finanziaria ad applicare la legge. Quando in un testo legislativo vigente viene introdotto un quid novi, il significato della modifica assume un rilevanza ben maggiore, sul piano della ratio, rispetto a un testo che già la contenesse ab origine, perché una modifica implica una valutazione critica approfondita anche sul piano sociopolitico. Vuol dire che si è constatato che il quid novi è necessario e come tale l’Amministrazione non può ignorarlo. Per l’interprete del diritto la novità è un “fenomeno di per sé”, al di là di ciò che apporta.
Pertanto, che si faccia riferimento alla sentenza della Corte costituzionale oppure all’anteriore testo modificato dell’art. 2 del D.Lgs. 446/1997, il punto focale del problema è nella locuzione “autonomamente organizzata”, che contiene due concetti ben precisi:
a) l’organizzazione di un’attività. È ovvio che il legislatore tributario e l’interprete, allorché usano il termine organizzazione si riferiscono al significato che ha nell’art. 2082 cod. civ. e per il cui chiarimento si riportano due definizioni classiche da ritenere tuttora valide:
– la voce “Impresa” !lei “Novissimo Digesto”, che precisa: « … ciò che caratterizza la figura dell’imprenditore è l’indole organizzativa dell’attività professionale da lui esercitata, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi. Il lavoro dell’imprenditore è tipicamente lavoro di organizzazione economica, essendo, correlativamente, l’impresa, organizzazione dei fattori della produzione per lo scambio. Non sono, pertanto, imprenditori perché la loro attività tipica professionale non si sostanzia nella organizzazione produttiva. i liberi professionisti intellettuali come i medici o gli avvocati, anche se si valgono, quale strumento ausiliario della loro attività essenzialmente personale di assistenza medica o legale, di un complesso organizzato di elementi personali (sostituti, assistenti, praticanti, segretari, impiegati, ecc.) e reali (apparecchi terapeutici, macchine da scrivere, dittafoni, registratori, libri, ecc.)…»
– F. Ferrara j., in Imprenditori e società, VI ediz., pago 36, che definisce organizzata quando : « ...l’attività risulta svolta da un complesso di persone ordinato dall’imprenditore (che ne è al vertice) come un organismo (organizzato). per modo che ciascuna abbia proprie funzioni e l’attività dell’impresa risulti dal simultaneo ed armonico svolgimento di tutte queste funzioni, che si integrano a vicenda. »;
b) la modalità dell’organizzazione, che deve svolgersi autonomamente. Il legislatore del D.Lgs. 446/1997, avendo chiara intenzione di restringere il campo di applicazione dell’IRAP e temendo interpretazioni troppo elastiche, ha inserito l’avverbio autonomamente, per meglio qualificare le modalità operative dell’organizzazione. Infatti, “autonomamente” è, in grammatica, avverbio di modo, ma in economia ha un significato “pesante”, che non si limita a esprimere una qualità, ma individua una causa produttiva di un effetto attraverso quel tipo di organizzazione, che, una volta realizzata, consente all’attività di non essere imprenditore-dipendente, almeno in via diretta. Come a dire che chiunque non versa nella condizione di disporre di una organizzazione autonoma, cioè in grado di produrre beni o servizi a prescindere dall’opera diretta e personale dell’esercente l’attività economica, non cade nel presupposto dell’imposta. Si nota, in proposito, la differenza tra la locuzione dell’art. 2 del D.Lgs. 44611997 e l’art. 2082 c.c., che qualifica: « imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi» senza condizioni di “autonomia” dell’attività.
La sentenza costituzionale n. 156, sempre nel richiamato paragrafo § 9.2, è criticabile anche sul punto in cui, dopo aver ribadito che l’IRAP è un’imposta reale, ne afferma la legittimità in relazione alla “capacità contributiva”. Si noti che la natura “reale” del tributo è sì espressamente (2) affermata nel comma 2 dell’art. 1 del D.Lgs 446/1997, ma almeno il legislatore non ha invocato la “capacità contributiva” rich
iamata, invece, dalla Corte costituzionale, che la fa seguire alla qualifica dell’IRAP come imposta su un valore aggiunto. A parte la pericolosità dell’accostamento all’IV A, che può stimolare dubbi di duplicazione, l’accostamento di un’imposta reale alla capacità contributiva crea una insanabile contraddizione. Secondo autorevole dottrina di scienza delle finanze (3) la “capacità” si estrinseca con riferimento a manifestazioni: reddito, consumo e patrimonio. Il valore aggiunto è un ‘altra cosa.
Questa constatazione dimostra ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, che i grandi principi, tra cui primeggia la “capacità contributiva”, sono falsi pretesti. Il politico ne fa uso quotidiano, il legislatore dovrebbe astenersi, il giurista dovrebbe aborrirli, per rispetto alla sua attività professionale, che, se è un onesto giuspositivista, non gli consente di sostituirsi al legislatore, ma nemmeno di farsi succube di categorie prive di logica e coerenza. La “ragion di stato”, implica che lo “stato” possa imporre tributi anche “a gogo”, ma non si dimentichi che la parola “stato” è sintesi della formula latina pro statu regni, impiegata dai re di Francia e d’Inghilterra per chiedere soldi ai sudditi in occasione di guerre o, ma questo era nascosto dietro principi, per sovvenzionare i sollazzi delle corti.
Infine, proprio perché il richiamo della “capacità contributiva” è inutile e lascia le cose come prima, si deve osservare che anche il concetto dell’attività “autonomamente organizzata” sarà fomite di nutrito contenzioso, come già si constata dalle sentenze di merito emanate dopo la pronuncia della Corte costituzionale, che oscillano tra due posizioni estreme:
le attività professionali che non possono estrinsercarsi senza l’intervento diretto del professionista non sono “autonomamente organizzate”. In concreto, nemmeno il notaio che disponga di più computer con programmi dedicati di software e dell’ausilio di uno staff di segretarie impiegate in funzioni specializzate dello studio (visure, repertoriazione, ecc.) può essere contribuente dell’IRAP, perché senza la sua firma nessun atto può dirsi rogato;
solo le attività svolte da professionisti senza strumenti informatici e senza nemmeno una segretaria possono essere esentate dall’IRAP; interpretazione che suona come una presa in giro, perché si tratterebbe di casi rari e comunque fuori dal tempo e dalla realtà pratica. Potrebbe essere la condizione del professionista in pensione o di quello che svolge solo incarichi di amministratore o sindaco, cioè di chi può svolgere attività senza bisogno di una iscrizione in un albo professionale.
La Corte costituzionale non poteva certo risolvere il problema pratico, né le Commissioni di merito possono farlo con un minimo di uniformità, perché i principi sono come i contenitori vuoti: si possono riempire come si vuole. Solo il legislatore può risolvere il problema, abolendo il tributo o fissando parametri che definiscano, seppur con stupida regola meccanica, quando si deve ritenere un’attività non autonomamente organizzata. Ma, nonostante i proclami, lo farà? C’è sempre sullo sfondo l’alto principio della ragion di stato.

(Pietro Bonazza)


_____________________________________________________________________________
(1) Si legga sull’argomento la critica svolta da Enrico De Mita, Plusvalenze da terreno espropriato: la Consulta legittima l’imposizione, in “Il Sole-24 ORE”, 27.9.1994, pag. 19.
(2) Bisognerebbe aggiungere “pomposamente”, perché nella precedente ILOR, pure imposta reale, tale natura il legislatore non aveva sentito il bisogno di dichiararla. (cfr. D.P.R. 29.9.1973, n. 599).
(3) Si vedano i classici testi: C. Cosciani, Scienza delle finanze, Torino, 1977, pagg. 394 e segg. e S. Steve, Lezioni di scienza delle finanze, Padova, 1972, pagg. 250 e segg.