Pensieri divaganti su “qualcosa e il nulla”

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Estratto

 

Dalla nascita della filosofia, ma probabilmente ancor prima, il filosofo e l’uomo comune si pongono la domanda: “perché esiste qualcosa invece del nulla?”, destinata a rimanere insoddisfatta, ancor oggi che la scienza si arroga il diritto di fornire una risposta oggettiva, che, però, non è mai arrivata. La domanda è particolarmente destinata ai filosofi, ai metafisici, agli ontologi e ai teologi, più che agli scienziati, perché rinvia  alla divinità creatrice del “qualcosa”, all’essere e all’esistere, alla transeunte vita terrena e all’aldilà.

Questo aforisma non propone alcuna risposta né fa un inventario delle tesi più accreditate, per il che si esige una dotazione di strumenti argomentativi raffinati, ma si limita a considerare che, se risposte durature non sono mai arrivate, significa che ha ragione l’uomo comune ad abbandonarsi all’esistere, finché dura. A chi intende addentrarsi nel problema, pur sapendo che non troverà risposta, conviene rimanere nella domanda, perché sia stimolo di continua riflessione oppure affidarsi alla Fede o alla poesia contro il pessimismo della sentenza del Sileno.

 

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Trascuriamo di entrare nel circuito metafisico dell’ottimista Leibniz, secondo cui il nostro è il migliore dei mondi possibili e risaliamo alla domanda originaria, che si pongono da sempre filosofi, scienziati, ma anche l’uomo comune, che non teme di alzare gli occhi verso il kantiano cielo stellato e che John Holt impiega come titolo di un suo libro recente “Perché il mondo esiste?”, aprendo una finestra sul pensiero del “nulla”. Citazioni e riferimenti sono pressoché infiniti, quindi citabili come frammenti di uno specchio frantumato, in cui ogni pezzo riflette l’intero problema. Non bastano certo le poche righe di un aforisma per rappresentarlo e ci si può limitare a una breve riflessione, senza nulla aggiungere ai saggi, che inondano le biblioteche di filosofia, teologia, fisica e astrofisica.

Perché il mondo esiste? Se lo chiedeva con tormentante urgenza il metafisico e matematico Leibniz assieme all’altra collegata domanda: che cos’è il tempo, in contrasto con Newton. È il mistero dei misteri e subito viene alla mente la tragedia Amleto di Shakespeare, che nel famoso monologo si pone il dubbio ontologico: “essere o non essere?…”.

Si può pensare che, prima di creare il mondo (universo), Dio, che è potenzialità e realtà, sia in uno stato stazionario e contenga in sé l’eterno essere: dal roveto ardente Dio risponde a Mosè: io sono colui che sono), [Esodo 3:14].


 
 

 
 
 
 
 

Gli studiosi (ma bisognerebbe dire i semiologi) della lingua ebraica antica non sono tutti concordi sull’origine e il significato del tetragramma אֶהְיֶה, ma vi è larga convergenza sull’interpretazione che nei quattro segni si debba intendere il nome di Dio: YHWH, che rinvia a “sono”, anche “sono e sarò”, nel senso di essere ed esistere permanentemente. Prescindendo dalle difficoltà oggettive di traslitterazione e traduzione, si può notare che Dio usa la prima persona dell’indicativo, che è un eterno presente e la ripete due volte, cioè non dice “io sono colui che è” ma “…colui che sono”, il che dimostra la profondità della teologia ebraica rispetto alla filosofia greca, seppure già dalla sua nascita questa si sia posta il problema dell’essere e del nulla, come si evince chiaramente nell’Edipo a Colono di Sofocle, che fa dire al dio Sileno: “meglio non essere nato, non essere, essere niente”. La pessimistica sentenza è un’invocazione del “nulla”. Invece, l’ “Io sono” è solo affermazione positiva ed esclude il nulla. Ma, si faccia l’ipotesi, pur nella sua contraddizione ontologica, che il “nulla” esista come antitesi di “qualcosa”: la dialettica, particolarmente l’hegeliana, esige che dopo tesi e antitesi vi sia la sintesi. La sintesi non potrebbe che essere Dio, allora Questi riunirebbe in sé con l’essere anche il non essere, cioè il “nulla”. Abbiamo, quindi, due ipotesi di nulla: a) un nulla che esiste in sé in uno stato di potenzialità equivalente a un’ipotesi astratta e b) un nulla consequenziale, come un venir meno di qualcosa.

In relazione all’ipotesi a): se il nulla esistesse, significherebbe che è qualcosa e, allora, poiché Dio è il tutto, vorrebbe dire che il nulla è compreso in Dio.

In relazione all’ipotesi b): se il nulla fosse il venir meno di qualcosa, significherebbe che prima del nulla c’era qualcosa, anzi, il nulla era qualcosa. Allora si apre il concetto dell’esistere, che è la negazione del nulla assoluto. Cosicché, ciò che è è un continuo oscillare tra l’essere e il nulla.

Nell’Odissea Omero scrive che Ulisse risponde a Polifemo, che gli chiede chi è: “Io sono nessuno”. Sappiamo che non è solo un callido gioco di parole e non è affermazione sostituibile con “Io non sono”, cioè non è una contradictio in terminis, una violazione dell’eguaglianza: A (nessuno) = A (non sono), ma può significare :”A (il nessuno che è) = A (non è il nulla)”

Sempre secondo la Genesi della Bibbia, Dio crea l’universo (il qualcosa) ed espelle, per contrapposizione dialettica, il nulla, che cessa di esistere, perché fuori da Dio non può esistere.

Il Big Bang è solo un punto di inizio sulla retta del tempo, che, spinta all’infinito, è l’eternità, cioè temporaneamente e virtualmente al non-tempo succede il tempo, il qualcosa destinato a diventare, chissà quando, il non-essere, umanamente parlando e che, secondo gli scienziati, equivale a un non-esistere. Se si pensa alla teoria del Big Bang: uno scoppio improvviso circa 14 miliardi di anni fa (e non si spiega perché non prima), che ha liberato un’energia precedente e probabilmente accumulata, che con la deflagrazione ha generato la materia, si deve ammettere che esistesse comunque “un prima”: questo poteva essere l’eternità. I cristiani potrebbero ipotizzare, anche senza limitarsi alla Fede, che Cristo è stato supremo sforzo di volontà umana, che si trasforma in volontà divina? No, perché il Figlio di Dio è Dio ab origine ed è la seconda persona della Trinità, quindi è vero l’opposto: è la volontà divina, compreso il Figlio stesso, che dà corpo umano al Cristo (Messia in greco). Si può spiegare anche così la Resurrezione, che si completa nell’Ascensione. La Resurrezione diventa l’uscita dalla morte (il nulla del non esistere) per il “qualcosa” che è il “non-nulla”. Il Cristo risorto non è un ritorno al Padre, da cui mai si è staccato, ma il superamento della condizione materiale del corpo umano, che è la promessa della ricongiunzione tra essere e non essere, cioè per i materialisti tra esistere e non-esistere, cioè la condizione di Dio prima della Creazione del mondo. Una diversa interpretazione per i credenti nella creazione ex-nihilo lascerebbe senza senso  il versetto della Genesi: “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”.

Però, un non credente potrebbe obiettare che la soluzione teologica è simile a quella del Barone di Münchhausen, che “si tira fuori dal pantano aggrappandosi ai propri capelli”.

Allora, essere è solo un predicativo, una copula? Non credo, perché l’essere potrebbe essere solo di Dio, in quanto immutabile ed eterno: dall’eterno all’eterno. L’uomo non può essere un essere, perché la sua mutevolezza lo porta a cambiare in ogni momento, perciò all’uomo non si addice l’essere ma  solo l’esistere finché dura. Quindi, la coniugazione del verbo essere sarebbe una contraddizione, per cui non si dovrebbe dire “Tizio è”, ma “Tizio esiste”. Per chi crede, l’essere potrebbe essere riferito solo a uno stato post mortem. Inoltre, mentre l’essere è fuori dal tempo, l’esistere è nel tempo, cioè il concetto di tempo può essere riferito solo all’esistere, anzi il tempo è la dimensione di ciò che esiste. Si può dire che l’esistere  è l’essenza dell’essere: l’esistere è in grado di assorbire l’essere. Se così fosse, si dovrebbe concludere che l’essere dell’uomo, non è eterno, ma c’è finché esiste; però, sarebbe una riduzione dell’essere e comporta negare che esista un Aldilà, cioè uno stato, una dimensione, che comporta una permanenza dell’essere seppur in condizioni diverse, che però non negano, sul piano logico, una permanenza dell’essere (vedi di Antonio Socci: “Tornati dall’Aldilà”). Dandosi, invece, l’interpretazione che è l’essere che assorbe l’esistere, vi sarebbe una stabilità dell’essere anche oltre l’esistere e darebbe soddisfazione a chi crede in una vita oltre la cessazione dell’esistere.

Se l’essere può essere inteso come una retta con due infinit; un punto sulla stessa è l’esistere indistinguibile, perché assorbito nella ininterrompibile retta stessa. Così ragionando, si finirebbe per non ammettere nemmeno l’esistenza, il che sarebbe ancor più contraddittorio. Filologicamente esistere viene da ex sistere, cioè uscir fuori, mostrarsi; ma uscire da dove? Evidentemente dall’essere. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, significa, per ebrei e cristiani, che Dio fa l’uomo a Sua somiglianza, cioè fa esistere l’uomo come somiglianza Sua che è i’ “Io sono colui che sono”, cioè immutabile, e allora l’esistere è una somiglianza dell’Essere, ma non è l’essere eterno dall’origine. Perciò l’essere è inconiugabile, perché può essere solo l’eterno presente, mentre, per ritornare alla distinzione tra essere ed esistere, l’esistere, essendo in continuo divenire, ha il passato, il presente e il futuro.

Mi chiedo quali sarebbero stati i percorsi della filosofia se Cartesio in vece del famoso e fatidico “Cogito, ergo sum” avesse affermato “Vivo, ergo sum”, che è una constatazione, mentre la prima asserzione è un interrogativo, ed è poi la considerazione che fanno in ogni momento i miliardi di uomini del passato e del presente, che hanno il coraggio di vivere la vita di ogni giorno, nel bene e nel male, senza i problemi della metafisica e della filosofia. Il fiore che sboccia non si chiede il perché: sboccia e basta, pago della sua bellezza, che giustifica il suo esistere. Ma per l’uomo non è altrettanto facile, perche, come disse Pascal, “è canna pensante”, che è il prezzo da pagare per essere l’essere.

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Sembra quindi che non ci sia una risposta scientifica alla domanda: Perché esiste qualcosa e non il nulla? E se non c’è risposta non è che la domanda sia fuor di luogo, ma, semplicemente anche se in soddisfacentemente, rimanere nella domanda. Ma che significa “rimanere nella domanda”?. A mio avviso, non significa rinunciare a una risposta, ma rimanere in attesa di poter dare una risposta, attesa che significa ansia, tarlo e spinta a perseverare nella ricerca di una possibile risposta pur sapendo che in molti punti sarà una risposta transitoria destinata al fallimento o, nel migliore dei casi, al superamento. D’altra parte, l’uomo non è onnisciente e deve accettare l’idea dei suoi limiti, anche se non deve rinunciare a superarlo, come l’avventuroso (non avventuriero)  Ulisse dantesco. La conoscenza, intesa come sapere e progresso, è di carattere cumulativo solo nel lungo periodo: un mattoncino dopo l’altro. Spesso il muro crolla, ma le fondamenta restano. La filosofia in particolare è un tipo di sapere che implica “un partire sempre d’accapo”, ma i filosofi continuano sulla strada un cammino a mo’ di gambero: questo è il loro modo di essere, che è oltre l’esistere.

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Ho provato a dare ascolto ai filosofi e sono caduto nello scetticismo ben riassunto da Pascal in uno dei suoi famosi “Pensées”: «La filosofia non vale un’ora di fatica», che, detto da quel grande filosofo, suona come una resa. Ma Pascal era in contraddizione con se stesso, perché alla filosofia dedicò l’intersa vita, che durò poco, ma molto più di un’ora.  

Ho provato ad ascoltare gli astrofisici e non essendo attrezzato per cogliere appieno i loro discorsi, mi son dovuto rifugiare nella poesia, che, come la Fede, non si propone di dare risposte, ma può lenire il dolore del Sileno. Così, con questa speranza, ho composto il sonetto: ABBA ABBA CDC DCD

L’inesistente nulla
 
Scruto dal limitar dell’universo [1]
per rimirar l’indescrivibil nulla [2]
che l’anima disturba dalla culla [3]
e rende l’uomo un essere diverso.
 
Spira leggero, come breve verso
susurrato da timida fanciulla,
un soffio ingannevole sulla
fronte come lieve alito disperso [4],
 
ma è il mio penetrar nell’infinito
fermo sull’universo che si espande
e svapora il nulla annichilito [5].
 
Così bricia di mondo si fa grande
ed il pensier vagante si fa ardito
a immaginar più mondi senza rande [6].
 
 
 

ooo000ooo

Wandering  thoughts about “something and nothing”

Abstract

 

Since the birth of philosophy, but probably more before, the philosopher and the common man answer the question: “why does exist something instead of nothing?”, which is destined to remain unsatisfied, also today that the science  claims the right to give an objective answer, that, however, has never arrived. The question is particularly destined to philosophers, to metaphysicians, to ontologysts and to theologians, rather than to scientists, because it returns to creative divinity of the “something”, to be and to exist, to the ephemeral earthly life and to afterlife.

This aphorism does not suggest any answer neither makes an inventory of the most reliable thesis, so it is necessary a subtle equipment of argumentation, but it confines itself to consider that, if lasting answers have never arrived, it means that the common man is in right to abandon to exist, until it lasts. Those who want to delve into the issue, also knowing that it will not find answer, is better to remain in the question, so that is stimulus to continuous meditation or to rely upon the faith or to the poetry against the pessimism of the judgement of Silenus.

(Translation by Giulia Bonazza)


[1] L’autore immagina di essere seduto sull’orlo dell’universo con lo sguardo rivolto all’oltre.
[2] Lo scopo è il tentativo di percepire il nulla, che però sarebbe indescrivibile anche se esistesse.
[3] Il nulla è ciò che turba l’animo dell’uomo sin dalla nascita e lo rende un essere diverso da tutti gli altri esseri, perché capace di proporlo.
[4] Un’aere leggero, come un verso pronunciato da una fanciulla spira sulla fronte, ma è ingannevole, perché è, invece, l’universo che, espandendosi, corre verso l’infinito.
[5] Il nulla è annichilito, perché l’espansione dell’universo ne dimostra la inesistenza.

[6] Ma con l’espansione dell’universo una briciola del nostro piccolo mondo cresce fino a diventare grande e rivelare una pluralità di mondi come aveva immaginato Giordano Bruno ed ogni mondo, calato nell’universo, si presenta senza confini.