Pietro Bonazza

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SOGGETTO PASSIVO: UNA FIGURA CONTROVERSA NEL RAPPORTO IVA

(articolo pubblicato sulla rivista “il fisco”, 2004, n. 1, pag. 68)

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I cardini del diritto tributario sono essenzialmente quattro: a) una potestà, che si suppone costituzionalmente legittima, generatrice di diritto-dovere di imposizione, di prelievo o di contribuzione; b) un soggetto attivo destinatario del prelievo; c) un soggetto passivo percosso dal prelievo; d) un presupposto oggettivo, che legittima la pretesa del soggetto attivo su quello passivo.

La figura del soggetto passivo non sembra riservare problemi particolarmente difficili nel sistema impositivo dei tributi diretti e nemmeno in quelli indiretti o reali o di finanza locale, nonostante le frequenti interposizioni di un sostituto o di un responsabile d’imposta. Difficile è, invece e nonostante le apparenze, l’identificazione corretta e consolidata del soggetto passivo nell’IVA, come si può osservare, per esempio, nella oscillazione del pensiero della Cassazione sul rapporto tra il cessionario di beni o committente e l’applicazione del tributo [1]. Dalla definizione o, meglio, dalla identificazione del soggetto passivo conseguono il diritto oppure il divieto per il cessionario o del committente di dedurre l’iva subita in rivalsa, nel caso di imposta non dovuta e l’ulteriore conseguenza del loro diritto o no ad attivare un rimborso diretto nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.

Si osserva che nel D.P.R. 26.10.1972, n. 633, non esiste una definizione di soggetto passivo, perché la rubrica legis dell’art. 17, tra l’altro declinata al plurale, si limita ad affermare che: «L’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi imponibili, i quali devono versarla all’erario…», norma da leggere in diretto collegamento con l’art. 18, che statuisce che il « soggetto che effettua la cessione di beni o prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o committente », così realizzando una traslazione obbligatoria in avanti. È ovvio che dopo il sostantivo “soggetti” è implicito l’aggettivo “passivi” e, inoltre che, inteso al singolare, il soggetto passivo è solo quello che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi. La conseguenza dovrebbe essere immediata e scontata: il cessionario e il committente non sono soggetti passivi e, pertanto, non possono instaurare un rapporto diretto con l’ente impositore. Questa conclusione non è univoca nella giurisprudenza della Cassazione, nella quale si notano tre soluzioni divergenti:

1. il cessionario e il committente, non avendo alcuna soggettività passiva, non hanno titolo per chiedere il rimborso all’Amministrazione finanziaria del tributo subito per una rivalsa di imposta non dovuta, per esempio: perché erroneamente applicata in fattura dal cedente o dal prestatore del servizio in un’operazione estranea al regime dell’IVA (si noti la differenza tra operazioni estranee, non imponibili o esenti). Il principio è affermato nella sentenza 10.7.1993, n. 7602, con cui la Cassazione ritiene, tra l’altro, che, proprio per la natura di estraneità all’IVA dell’operazione in questione (trattavasi di risarcimento danni) non è consentito al cessionario e al committente, né di detrarre l’IVA subita indebitamente, né di chiedere direttamente il rimborso all’Amministrazione finanziaria, per cui l’unico rimedio è l’azione di recupero esercitabile nei confronti del cedente o del prestatore del servizio. La sentenza Sez. Unite civili 29.4.2003, n. 6632 [2], si pone sulla stessa linea, con l’ulteriore conseguenza che le Commissioni tributarie non hanno competenza nelle controversie tra soggetto attivo e soggetto passivo della rivalsa.

2. In termini diametralmente opposti e in fattispecie eguale (risarcimento di danno) si era pronunciata la sentenza 23.6.1992, n. 7689, che conclude per la detraibilità e il diritto al rimborso dell’Iva subita in rivalsa per operazione estranea.

3. Collegabili indirettamente al problema risultano le due sentenze 18.2.2000, n. 1841 e 23.3.2001, n. 4284, con cui la Cassazione affronta il problema della corresponsabilità del cessionario e committente alla luce dell’art. 41 del DPR 633/1972 trasfuso nell’art. 6 del D.Lgs. 18.12.1997, n. 471, correttamente interpretabile se posto in collegamento con l’art. 21 del D.P.R. 633/1972. La Cassazione sostiene innanzi tutto che il cessionario di un bene o il committente di un servizio ha sì l’obbligo di supplire alle mancanze commesse dall’emittente la fattura in riferimento alle indicazioni prescritte dall’art. 21 del D.P.R. 633/1972, ma: « non anche di controllare e sindacare le valutazioni giuridiche espresse dall’emittente medesimo, quando, in fattura recante l’esatta annotazione di tutti i suddetti estremi, inserisca l’esplicita dichiarazione di non debenza dell’imposta…indipendentemente dalla questione della tassabilità o meno dell’operazione ». Di seguito e in riferimento all’art. 6 del D.Lgs. 471/1997, precisa: «la norma in esame chiama il cessionario od il committente ad emendare “irregolarità” commesse dal debitore d’imposta in sede di fatturazione, e, quindi, ponendo obblighi correlati alla redazione di un documento, è riferibile ai vizi che ne evidenzino nel caso concreto la divergenza dallo schema legale, per errori, incompletezze o lacune di contenuto. L’uso di detto termine nel suo significato proprio trova inequivoca conferma nel rilievo che la regolarizzazione richiesta al cessionario o committente consiste nel fornire le indicazioni dell’art. 21 del D.P.R. n. 633 del 1972, il quale appunto elenca gli elementi da inserire nella fattura. L’inclusione, fra i compiti del cessionario o committente, di un apprezzamento critico, su quanto l’emittente di fattura completa dichiari in ordine alla non imponibilità dell’operazione, trasformerebbe l’obbligato in rivalsa in un collaboratore con supplenza in funzioni di esclusiva pertinenza dell’ufficio finanziario… una dilatazione delle incombenze in discorso, nel senso voluto dall’Amministrazione, non sarebbe del resto coerente con il contestuale obbligo del soggetto tenuto alla regolarizzazione della fattura altrui di pagare l’imposta non versata o versata in misura insufficiente». Quindi, la Cassazione ha dichiarato soccombente l’Amministrazione che asseriva, invece, la piena corresponsabilità del cessionario o del committente e sembra di capire, dalla sentenza, che questi non siano tenuti a operare alcuna regolarizzazione persino nel caso – ed era la fattispecie esaminata – di fattura emessa senza alcuna applicazione di imposta, risultata evasa per intero. La lettura dell’art. 6, commi 8 e 9, del D.Lgs. 18.12.1997, n. 471 nel senso interpretato nelle due sentenze richiamate, sembra possibile solo se si pone l’art. 21 del DPR 633/1972 in una gerarchia con rango superiore, però con la conseguenza di svuotare completamente l’art. 6. Infatti, non diversi dovrebbero essere gli obblighi del ricevente la fattura se l’aliquota fosse insufficiente e l’emittente scrivesse sul documento che l’operazione è soggetta all’aliquota inesistente, per esempio, del 7% anziché quella normale, perché si ricadrebbe comunque in un caso di non obbligo “di controllare e sindacare le valutazioni giuridiche espresse dall’emittente medesimo”. Né vi sarebbero dubbi sul diritto del ricevente di registrare in detrazione l’IVA subita per rivalsa seppur con valore inadeguato e senza obbligo di integrazione o “regolarizzazione”. Il problema non può dirsi risolto dalla sentenza a Sezioni Unite n. 6632/2003, che ha trattato solo l’estraneità delle commissioni tributarie dalle vertenza tra cedente e cessionario, quest’ultimo non riconosciuto come soggetto passivo d’imposta. Ma questa sentenza non ha compiuto un’analisi del concetto di irregolarità emendabili, come invece si legge nelle sentenze 1841/2000 e 4284/2001, anche se non è facile la generalizzazione del concetto fondamentale espresso in queste e il rapporto tra l’art. 21 del D.P.R. 633/1972 e l’art. 6 del D.Lgs. 471/1997 non pare chiarito in modo convincente.

Il problema può dirsi tutt’altro che risolto. È evidente che la Cassazione ha voluto estraniare l’Amministrazione finanziaria – ma si potrebbe dire in primis la magistratura tributaria – dalle vertenze che possono insorgere tra cessionario e cedente, con rinvio della competenza ad altra sede. Questa conclusione è possibile solo se si afferma la unicità del soggetto passivo d’imposta, però la conseguenza è anche il rischio di rendere inoperante, in alcuni casi, l’art. 6 del D.Lgs. 471/1997.

Se, invece, si vuol coinvolgere il cessionario o il committente nella piena corresponsabilità del rapporto IVA verso l’Erario, come vorrebbe l’Amministrazione finanziaria e non la Cassazione, che l’ha dichiarata soccombente nelle due sentenze 1841/2000 e 4284/2001, allora bisogna accettare che vi siano più soggetti passivi d’imposta, però con la conseguenza, già tratta dalla sentenza 7689/1992, che cessionario e committente abbiano diritto non solo alla detrazione di un’imposta non dovuta, ma anche di ripeterla, ove occorra, direttamente dall’Erario e, come ulteriore conseguenza, che possano rivendicare la legittimazione processuale attiva nei giudizi tributari.

L’Amministrazione finanziaria e la Cassazione devono constatare che non si può avere tutto e il suo contrario e che una scelta comunque si impone. Senza entrare nelle distinzioni tra contribuente percosso e inciso, di diritto e di fatto, impiegate nella scienza delle finanze [3] pare non infondato ritenere che l’unicità del soggetto passivo sia restrittiva nel campo dell’IVA e che la declinazione al plurale della rubrica dell’art. 17 del D.P.R. 633/1972 non sia un lapsus freudiano del legislatore, ma possa sottintendere una intenzione di bisoggettività.

Si deve anche constatare, ancora una volta, l’importanza del linguaggio che nel diritto tributario è ancor meno innocuo di altri campi. Il linguaggio è convenzionale e formale e nel diritto, che è essenzialmente forma, non basta dire che nessuna norma è inutiliter data, ma che nessuna parola, anzi nessuna punteggiatura sono indifferenti e prive di conseguenze. Questa constatazione, se riguarda in primis il legislatore, non lascia senza responsabilità nemmeno l’interprete e il giudice in particolare.

Pietro Bonazza


[1] Si analizzino, per esempio, le sentenze Cass., 23.6.1992, n. 7689, 10.7.1993, n. 7602 e 23.3.2001, n. 4284.

[2] In “il fisco”, 2003, n. 23, fasc. 1, pag. 3675.

[3] Si vedano per esempio, S. Steve, Lezioni di scienze delle finanze, Padova, 1972 pegg. 48 e segg.; C. Cosciani, Scienza delle finanze, Torino, 1977, pag. 124.