Si fa un uso troppo generalizzato e generico della parola giustizia, talché continuano a sorgere, dopo secoli, imperdonabili confusioni, come accadde a Lutero, che su quell’equivoco costruì buona parte della sua eresia. Giustizia è termine di origine religiosa, ma oggi di quella lontana radice non c’è più traccia e, quindi, non si può più confonderla con misericordia né con equità.

Nel tentativo, forse fallimentare, di fare chiarezza, sostengo che:

  • – la misericordia è atto divino;
  • – l’equità appartiene alla sfera del diritto naturale oppure è una qualità della giustizia;
  • – la giustizia, in quanto rispetto e applicazione della legge, è un fenomeno del diritto positivo.

Con questo ho forse banalizzato il concetto di giustizia, ma l’ho reso più reale. Infatti, perché ai giudizi l’ordinamento riserva tre gradi di esame? Perché non si fida di uno solo. Perché un collegio anziché un giudice monocratico? Perché le aule di giustizia non sono invase da Salomoni. E quando sento un sottoposto a processo affermare che ha fiducia nella giustizia, sono costretto a sorridere, perché il fiducioso omette la condizione “purché mi si dia ragione”. L’attestazione di fiducia non ha maggior valore morale dell’altra: “ho presentato una domanda di licenza edilizia; spero che la Commissione comunale l’accolga”.

Ora, se si toglie al termine giustizia l’alone che la circonda e ne sfuma i confini, come un cerchio di gesso in un mare di nebbia, la si riduce a un fatto tecnico o, meglio, umano. Il giudice finisce per essere scaricato del peso della toga, ma si rende anche più umano il suo operare. Il processo, soprattutto il penale, è tragedia. Diceva l’indimenticabile Carnelutti “il processo è già pena”. Ora, questo processo-tragedia, è opera teatrale che può essere di Shakespeare o di Scarpetta, pianto e risa, miseria e nobiltà e il giudice, il pubblico ministero, il difensore, l’imputato, il teste e il cancelliere: sei personaggi in cerca d’autore. Ma non si celebri mai il trionfo della giustizia. La giustizia non ha trionfi e la Corte non brinda. Non è nemmeno vero che “sia eguale per tutti”, perché, in quanto applicazione della legge, c’è sempre un Giolitti in agguato a sostenere che “la legge si applica per i nemici e si interpreta per gli amici”. La giustizia non ha più nemmeno bilancia, perché non è una questione di pesi. Resa così povera, è anche più accettabile e il giudice è restituito al mondo cui appartiene. Permangono alcune liturgie, ma anch’esse ormai secolarizzate. Ricordo con simpatia un giudice bresciano, sereno e competente, di antica scuola, in attività quando le sentenze 2 ottobre 1979, n. 117 e 5 maggio 1995, n. 149 della Corte costituzionale abolirono dal giuramento il riferimento a un’entità superiore, e lo hanno ridotto, invece, a una frase tautologica o monca. Tanto valeva – e sarebbe stato più accettabile e coerente – cancellare il giuramento. Quel buon giudice – di Brescia, si noti, non di Berlino – biascicava in fretta e in modo incomprensibile la formuletta di rito chiudendo con un “dica lo giuro” e il giurante ripeteva “lo giuro”. La lettera della legge era rispettata, ma anche opportunamente svuotata. Un giorno anche queste vestigia saranno sotterrate. Può darsi che si affiderà l’amministrazione della giustizia a un supercomputer. La misericordia di Dio ce ne scampi! Meglio Azdak, giudice ubriacone, ma uomo.

La Corte Costituzionale riconobbe, giustamente, che in uno stato laico non si può pretendere da un ateo un giuramento invocando la divinità. Ma la divinità Gesù Cristo è andata ben oltre nel “Discorso della Montagna” (Luca, 6, 17-49). Dice il Cristo: «avete udito pure che fu detto dagli antichi: “Non ispergiurare, ma attieni al Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: “Del tutto non giurate, né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran Re. Non giurar neppure per il tuo corpo, perché tu non puoi fare un solo capello bianco o nero. Ma sia il vostro parlare: Sì, sì: no, no; perché il di più viene dal maligno.»

Gesù Cristo parlava chiaro, anzi con inaudito coraggio, se si pensa che così si esprimeva nella terra dei farisei, dei sadducei, degli scribi animati dal più bieco conservatorismo.