Valore delle azioni ex art. 2437-ter cod. civ. e going concern

 

La sentenza della Cassazione 15 luglio 2014, n. 16168, stimola un’analisi dell’art. 2437-ter cod. civ., in particolare del comma 2, ora vigente dopo la modifica apportata dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, che, però, lascia aperti problemi interpretativi che la tecnica delle valutazioni dei valori economici può risolvere.

Recita la norma, da ritenere applicabile  alle società in generale, escluse quelle quotate in mercati regolamentati, per le quali prevale la norma specifica del comma successivo:

«Il valore di liquidazione delle azioni è determinato […] tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni». La norma indica tre riferimenti per la valutazione:

a)      la “consistenza patrimoniale”, cioè il complesso correlato delle attività e passività di bilancio che non determinano per differenza contabile il valore del patrimonio netto, perché si deve procedere alle rettifiche e agli assestamenti delle singole voci, per aggiornare i valori delle singole poste, incrostate, frequentemente, da rappresentazioni risalenti e da errori o da politiche praticate nel tempo con stime e congetture rimaste consolidate pur nella successione nel tempo degli amministratori. Per avere conferma della necessità degli aggiornamenti rettificativi, basti pensare a due società: la prima che ha eseguito nel tempo rivalutazioni di cespiti secondo norme di legge, la seconda, che, coeteris paribus, ha mantenuto i valori storici. La prima avrà un patrimonio netto contabile aggiornato o quasi, salvo altre rettifiche, mentre la seconda avrebbe un valore contabile inferiore. Data la premessa della pari consistenza patrimoniale, sarebbe assurdo che la seconda avesse un valore inferiore, se ci si limitasse alla apparenza contabile immediata. Questa constatazione conferma, in via logica, che “consistenza patrimoniale” e capitale netto contabile sono entità diverse e che la norma dell’art. 2437-ter, comma 2, cod. civ. si riferisce correttamente solo alla prima entità;

b)      le “prospettive reddituali”. La definizione classica dell’economia di azienda afferma che “l’azienda è un istituto economico destinato a durare…”, quindi dà per implicito che l’azienda debba essere considerata nella prospettiva della “continuità aziendale”, o come oggi va di moda dire, del going concern, perché è il futuro il contesto temporale che consente la sopravvivenza, riflettendo le qualità dell’organizzazione, l’elasticità, l’economicità prospettica della gestione e il consolidamento del know how, come deposito di valori specifici. In altri termini: il legislatore si sta riferendo all’avviamento (goodwill) che incrementa il valore nel tempo o al disavviamento (badwill), che moltiplicandosi nel tempo può determinare la distruzione dell’azienda;

c)      “eventuale” valore di mercato delle azioni. Eventuale perché potrebbe non esserci un mercato. L’aggettivo  ha la funzione di distinguere le società non quotate (prive o no di mercato) dalle quotate, che, invece, per il loro stesso stato, sono nel dinamico mercato regolamentato. Questo spiega perché a queste ultime il legislatore ha riservato lo specialistico comma successivo nell’art. 2437-ter cod. civ.

Queste constatazioni consentono di sostenere che,  sotto il profilo della indicazione dei corretti criteri di valutazione l’art. 2437-ter cod. civ. e, in particolare il comma 2 per le azioni non quotate, la norma sia completa e segua le esperienze consolidate dei criteri seguiti dall’economia aziendale delle valutazioni.

La citata sentenza della Cassazione 15 luglio 2014, n. 16168, ha fatto corretta applicazione dei ricordati principi, pur affrontando lo specifico caso della legittimità, riconosciuta, di uno statuto che preveda di considerare nella determinazione del valore di recesso: «… secondo il criterio che tiene conto dell’utilizzo dei cespiti nella prospettiva della continuità aziendale (going concern)».

Statuto o no, pare evidente che l’”utilizzo dei cespiti” sia una mera modalità per considerare le “prospettive reddituali” come rilevato sopra alla lettera b).