Osservazioni sulla democrazia attuale

 Se vogliamo capire la politica nella sua manifestazione reale, nella sua concreta esistenza, dobbiamo considerarla nel rapportarsi al suo fine etico, che dovrebbe porsi come prospettiva di un continuo incremento del bene della comunità mediante azioni necessariamente morali. Sono le azioni il cuore della politica. Possiamo affrontare il problema da almeno due punti di vista:

– ciò che la politica non deve essere;

– ciò che la politica deve essere.

Premesso che i due punti devono essere complementari, il primo punto di vista afferma che la politica, indipendentemente dal regime politico, non deve essere a beneficio di chi detiene il potere sia che esso derivi da una attribuzione popolare/collettiva o da un’investitura divina o religiosa o da una tirannica auto investitura. La politica è azione per definizione, quindi è dinamica, perché è calata nel divenire inarrestabile. La distinzione tra le tre categorie tradizionali: monarchia, aristocrazia e democrazia, secondo la consolidata classificazione di Aristotele, perde significato se il fine è il benessere del popolo. Cambia l’interprete, non la finalità. Naturalmente in un passo successivo si pone un problema di scelta del miglior regime, cioè quello che può realizzare al meglio sul piano tecnico e concreto il fine del bene collettivo.

Detto questo, si può affrontare il secondo punto di vista: ciò che la politica deve essere. Si potrebbe dire, in estrema sintesi con apparente contraddizione, che la politica deve essere l’opposto di ciò che non deve essere, cioè un positivo mediante la negazione del negativo. Possiamo riempire le biblioteche di trattati di filosofia della politica e di storia della politica, ma, alla fine, il concetto è questo.

La complicazione maggiore si manifesta quando si vogliono esaminare i rapporti tra politica e libertà, perché sono concetti dialettici e non facilmente riducibili a sintesi soddisfacente.

All’inizio di ogni consorzio umano, essendo aggregazione di più individui bisognosi di uno di loro che li diriga e li protegga, c’è una specie di accordo per la scelta del capo, cioè c’è sempre una sorta di espressione collettiva contrattualistica: a governare sarà il più forte o il più coraggioso o il più saggio, con cui è stipulato il patto sociale, che comporta la rinuncia di tutta o parte della libertà.  

La teoria del Leviatano di Thomas Hobbes ben interpreta questo sviluppo dall’inizio in cui l’homo hominis lupus, consapevole della propria ontologica malignità, accetta l’esito finale della perdita della propria individuale libertà. Rispetto a questa teoria, che ha la sua natura in un contratto stipulato coscientemente, la interpretazione di Aristotele appare come meramente descrittiva. Anche nella forma estrema della tirannia si potrebbe vedere una natura contrattualistica, nel senso che nessuna forma oppressiva resiste nel tempo oltre un certo limite al quale accade il regicidio che anche san Tomaso giustificava in certe condizioni. A maggior ragione dovrebbe essere contrattualistica la forma della democrazia. Il condizionale è d’obbligo, se si constata che anche nelle forme più avanzate maturate nel mondo occidentale la democrazia comporta il rischio di sfociare in demagogia, in cui il popolo, uno dei due contraenti, rinuncia a far valere i propri diritti, preferendo il benessere individuale al collettivo, la vacanza al diritto-dovere di esprimere periodicamente la propria razionale e meditata opinione, la nazionale di calcio alla nazione, il segno dell’analfabeta su un simbolo scelto con la pancia anziché col cervello nella cabina elettorale, quasi smentendo la positiva grandezza della definizione riassuntiva di Abramo Lincoln nel discorso di Gettysburg: «La democrazia è il governo del popolo, dal popolo, per il popolo», che ignora il pessimismo di Voltaire: «il popolo lavora sei giorni alla settimana e il settimo lo passa all’osteria», contrastato dalla affermazione di Winston Churchill: «La democrazia è la peggior forma di governo, a eccezione di tutte le altre», però non consolatoria.

    Dunque, alla base di ogni forma di governo c’è l’implicito affidamento di una collettività secondo un contratto il cui prezzo è la rinuncia o in tutto in parte della libertà. La differenza sembrerebbe il come e il tempo e, quando la collettività pretende di non pagare alcun prezzo, si ha l’anarchia. Seppur in misura diversa e non sempre esplicita anche la democrazia comporta una rinunzia parziale della libertà, che non può essere intesa come un assoluto; diversamente si trasforma in anarchia o nella sua forma camuffata in demagogia, di cui sembrano ammalate tutte le democrazie del mondo occidentale. Detto questo, resta la domanda cruciale: qual è la causa più importante, tra le tante, che ha portato a questo pericoloso scivolamento? La risposta potrebbe essere: la perdita della moralità che deve essere alla base del contratto sociale. Perdita della moralità che significa individualismo, egoismo, affievolimento del fine dell’interesse collettivo, corruzione dei governanti e insensibilità dei governati, con la conseguenza che le istituzioni giuridico-sociali possono venire travolte, dietro l’ipocrita pretesa di far valere il political correct, che è una pericolosa forma di demagogia, che vorrebbe far credere di difendere la libertà e, invece, la sopprime. Si osservi che l’evoluzione dell’Occidente verso la forma democratica è andata di pari passo con l’affermazione della moralità, che è il suo complemento. L’asse su cui si dovrebbe interpretare la politica è allora: moralità→senso del collettivo→contratto sociale→contenuti del contratto→capacità di scelta di uomini e fini→democrazia diretta e/o indiretta, ove la moralità non è necessariamente una categoria religiosa  né cristiana.

 La domanda se oggi le democrazie occidentali si sviluppano su questo asse, sembra ottenere una risposta quanto meno dubbiosa.

Si noti che, sin qui, questa nota è riferita a una visione laica del concetto di politica, che può essere applicato anche al momento storico del sorgere delle prime collettività umane caratterizzate da una visione pragmatica della scelta politica.

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Per confronto con questa pessimistica valutazione si potrebbe richiamare l’interpretazione di Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, teologo del diritto, che in Gesù davanti a Pilato pone all’inizio della catena la “ricerca della verità”, derivando il concetto dal Vangelo di Giovanni (18,37). 

Mi pare opportuno osservare che, seppur condivisibile sotto ogni punto di vista, il richiamo di Ratzinger alla premessa della ricerca della verità come fondamento della politica, non possa risalire all’uomo primigenio. In termini brutali: che ne sapeva della verità l’uomo di Neanderthal alla ricerca di risolvere il problema vitale di scegliere il capo di una ristretta tribù? C’è voluto il Cristo con il suo sacrificio cruento a definire il concetto di verità, che nelle società attuali, cosiddette evolute o mature, è accantonato fino a travolgere anche il concetto di moralità per cacciarsi in quello che Oswald Spencer definì Il tramonto dell’Occidente.