Pietro Bonazza

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VALUTAZIONE DELLE AZIENDE: UNO O P METODI

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(L’articolo è stato pubblicato in “Il giornale dei dottori commercialisti”, 1983, n. 12, pag. 18)

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La dottrina e il comportamento degli operatori

 

Il problema della valutazione dell’azienda può essere esaminato dal professionista della materia dalla visuale di lettore delle opere che la letteratura offre sull’argomento. Distinguo la letteratura sul tema della valutazione di azienda in due classi:

i manuali, descrittivi di metodi di valutazione, per esempio: patrimoniali, reddituali e finanziari, da utilizzare secondo le circostanze e le variabili situazioni aziendali. Queste opere hanno la pretesa, forse anche fondata, di fornire allo stimatore una specie di summa della materia, nel senso che, identificata la fattispecie concreta e trovato nel manuale il suo modello teorico, l’operatore è in grado di reperirvi il corrispondente metodo di valutazione. A mio avviso, il valore di tali opere, che pure sono utilissime, è del tutto analogo al manuale del buon saldatore, che, all’incirca, suggerisce la misura dell’elettrodo in rapporto alla dimensione di pezzi di ferro da saldare. Sono cioè manuali tecnici anche quando sono scritti da accademici, che espongono lunghi preamboli teorici a ogni singolo metodo proposto. Ritengo che queste opere siano tutte inficiate da un errore di fondo: dimenticano cioè la vera natura dell’azienda. Quanto più sono lunghi i preamboli teorici, tanto più può risultare, come denuncia Khun: «… che i libri di tal genere abbiano uno scopo persuasivo e pedagogico: una concezione della scienza ricavata da essi non è verosimilmente più adeguata a rappresentare l’attività che li ha prodotti di quanto non lo sia l’immagine della cultura di una nazione ricavata da un opuscolo turistico… » [1]

i saggi di studiosi raffinati ed eleganti, che dimentichi della saggezza di economisti alla Smith e Marshall, pretenderebbero di risolvere ogni problema con modelli matematici, spinti fino alla più enigmistica esoterica rappresentazione della realtà. [2]

Intendo dimostrare che esiste un collegamento tra la critica che un lettore può rivolgere alla citata letteratura, e quello della pluralità dei metodi di valutazione. Premetto, allora, un’affermazione da dimostrare: non possono esistere criteri di valutazione diversi per un’industria chimica, rispetto a una banca, per una società di commercio all’ingrosso rispetto a una compagnia di assicurazione, e ciò non perché siano eguali i criteri di organizzazione dei fattori produttivi ed eguale sia la coordinazione necessaria al loro conglomerarsi in processi, ma perché tutte hanno un fine comune: quello di produrre un profitto a favore dell’imprenditore. Sarà forse anche una limitazione della civiltà occidentale, ma non mi risulta sia stato ancora inventato qualcosa di meglio del profitto per avere aziende destinate a durare e che siano suscettibili di valutazione. Infatti, vi sono due condizioni perché un processo di valutazione possa essere proposto: che si tratti di complessi che producono un reddito (solo gli sciocchi o i filantropi sarebbero disposti ad acquistare aziende irreversibilmente destinate alla perdita) e che siano suscettibili di essere compravendute (non interessa valutare la manifattura dei tabacchi, che è monopolio di Stato). Allora, se la realtà è semplicemente questa, perché affannarsi a scrivere centinaia di pagine di manuali o decine di equazioni illeggibili? Un mercante del ‘500 che avesse voluto acquistare un fondaco pieno di merci in Lombard Street come avrebbe orientato la sua valutazione? Non certo con manuali o sofisticati modelli matematici! Avrebbe sicuramente considerato il grado di commerciabilità di quelle merci giacenti nel fondaco e la probabile durata dell’autorizzazione a esercitare la mercatura con la possibilità di svolgerla in relazione alla trasferibilità di nuove merci da altri luoghi al fondaco e la capacità di assorbimento di quel mercato, il tutto in condizioni di profittabilità. In altre parole il nostro mercante avrebbe calcolato se da cento fiorini sborsati avrebbe potuto ricavarne con ragionevole probabilità un guadagno di venti il primo anno, venticinque il secondo e cosi via. E solo dopo aver considerato il flusso dei guadagni si sarebbe deciso a sborsare i cento fiorini. Vi sono sicuramente condizioni di non paragonabilità tra un imprenditore di oggi e il mercante del ‘500, che nemmeno ipotizzava un futuro con Adamo Smith e i suoi epigoni. Ma, in tema di valutazioni di aziende, sono personalmente convinto che le differenze sono minori di quanto non si pensi. Cioè, oggi economisti, tecnici o professionisti che dir si voglia, hanno costruito una scienza o una pseudoscienza della valutazione di azienda, ricca di metodi e formule ed equazioni, ma l’imprenditore, che è il soggetto che sborsa i quattrini e chiede valutazioni, decide in base alle sue speranze di profitto (o per essere più precisi di profittabilità) e utilizza le stime fatte dai tecnici soltanto per dimostrare all’altra parte che il prezzo richiesto è esorbitante e così, come direbbe Guicciardini «… spendere el quattrino per cinque danari» [3]. Se ciò è vero, c’è da essere poco entusiasti di una scienza che serve non a valutare, ma a migliorare un affare di chi per altre vie, fosse anche solo l’intuito o il «signor naso», è pervenuto ad una sua ipotesi di valore. Ma non c’è da rammaricarcene, perché sono convinto che il metodo usato dal nostro acquirente è quello giusto. Infatti il soggetto che aspira ad acquistare un’azienda è innanzi tutto un soggetto intenzionato a essere un imprenditore, qualora già non lo sia. Cioè prima di compiere una scelta di carattere patrimoniale opta per una funzione professionale. L’affermazione non ha valore parziale, limitata all’acquirente dell’azienda che occupa cento dipendenti alla periferia di Parigi o di Milano, vale anche per il caso limite di chi vuoI prendere il pacchetto di comando della multinazionale. Non vale per l’acquirente delle azioni in borsa anche in grande quantità, che intende detenerle a puro scopo di investimento o per rivenderle al momento dell’incremento del corso. Non vale cioè per lo speculatore, né per il risparmiatore. Questi soggetti non hanno una scelta di professionalità imprenditoriale e la valutazione che sarà applicata alle loro scelte non sarà una valutazione di azienda, anche se di quest’ultimo problema si potranno rinvenire talune componenti. Ritengo che certe elaboratissime e sofisticatissime indagini di studiosi statunitensi sulle composizioni di portafoglio siano state estese e utilizzate per problemi di valutazioni di azienda, confondendo le scelte dello speculatore con quelle dell’imprenditore. [4]

Credo di poter affermare che nel caso dello speculatore si fa una stima, nel caso dell’azienda si fa una valutazione. Quest’ultimo processo tiene in considerazione aspetti ben più vasti.

Devo però precisare che non intendo affatto ipotizzare l’inclusione, peraltro impossibile, di valutazioni di componenti soggettive. Oggetto della valutazione d’azienda è sicuramente di più di una valutazione dei componenti, ma non arriva mai agli aspetti qualitativi del soggetto imprenditore. L’affermazione ha senz’altro il difetto della ovvietà, ma va fatta per evitare equivoci.

 

Teoria del valore

 

Una teoria unificata della valutazione di azienda, incentrata sul comportamento degli operatori interessati, deve esaminare le motivazioni che spingono una delle parti a proporsi come acquirente.

Una classificazione completa non ha grande significato e si possono solo individuare alcune cause ricorrenti. Ai fini di queste note si considera che l’aspirante acquirente intenda acquisire un flusso autonomo di profitti o potenziare altre sue fonti di profitti. Uso il termine profitto e non reddito, perché ho escluso dal campo di indagine, l’investimento del capitalista che non intenda combinare capacità imprenditoriali con capitale. Infatti, considerando che già per Marshall i fattori della produzione comprendono anche l’imprenditore, non è ipotizzabile il fenomeno azienda senza tale fattore, centro motore della combinazione produttiva. [5] Il processo di valutazione, che è un tentativo di attribuzione di valore a quel complesso, non è proponibile con l’esclusione del fattore imprenditore. Ma a questo punto interviene una apparente contraddizione: l’azienda non è tale senza quella presenza, che, di contro, è un complesso di fattori umani, quindi soggettivi, però incedibili, quindi non valutabili. Si dovrebbe concludere che la valutazione o la si lascia parziale, priva cioè del suo elemento caratterizzante, o la si abbandona, perché impossibile. Ma non è così! Il mercante del ‘500, cui prima ho accennato, nel momento di acquisire ti fondaco non era certo disposto a mettere nel prezzo le intrasferibili capacità soggettive del cedente e ancor meno il risultato atteso applicando le proprie. Tutt’al più avrebbe corrisposto un prezzo per la autorizzazione governativa, la licenza diremmo oggi, ammesso che fosse una realtà burocratica anche di quei tempi ed avrebbe anche accettato di considerare nel prezzo la ubicazione più o meno felice del fondaco e, esistendo, una organizzazione di personale oggettivamente cedibile. Ma il prezzo base, cui aggiungere gli elementi sopra descritti, avrebbe considerato il solo grado di monetizzabilità delle merci giacenti.

Come all’epoca sapessero apprezzare, dal punto di vista della tecnica valoristica, quella pur embrionale organizzazione, forse ce lo potrebbe chiarire uno storico, ma è certo che una qualche considerazione influente sul prezzo, sarà pur stata fatta, soprattutto per le insistenti puntualizzazioni dell’aspirante venditore.

Con le successive rivoluzioni industriali, o meglio con la rivoluzione industriale permanente, il grado di capitalizzazione e quindi l’intensità dell’organizzazione si sono enormemente complicati, ma al tempo stesso semplificati, perché oggettivizzati. Ma il problema di fondo resta sempre lo stesso.

Se per un processo economico si intende un complesso di attività finalizzate a generare utilità nuove nel tempo e nello spazio, il cui ciclo inizia con erogazioni monetarie per concludersi con il ritorno di moneta, maggiore, uguale o minore, secondo l’attitudine di quella organizzazione a modificare gli originari valori, in qualsiasi momento si voglia determinare il grado di avanzamento di ogni processo, o di ogni ciclo, nel suo cammino verso il ritorno monetario, dobbiamo effettuare un tentativo di valutazione del processo e, per somma di tutti i processi, dell’azienda di cui sono componenti.

La presenza di strutture capitalistiche atte a moltiplicare in tempi anche lunghi: flussi di processi complementari e intersecati, è solo un problema di carattere temporale, che nonne sposta i termini essenziali. Cioè per i nemici dell’impresa, che la ritengono un «peccato» (e qui bisognerebbe distinguere tra peccati pubblici e privati) è solo questione di un «…quante volte», come direbbe un «confessore», ma il peccato nelle sue qualificazioni e implicazioni ideologiche resterebbe il medesimo.

Allora: se è il processo economico il punto centrale di una teoria del valore dell’azienda, resta da verificare se il prezzo di quel processo economico (e il valore totale altro non è che somma dei valori di tutti i processi) debba essere quello ricavabile dalla somma dei costi dei fattori già impiegati e impegnati oppure debba essere l’attualizzazione delle attese di ritorno monetario a fine ciclo. La risposta è ovvia: non interessano le utilità immesse, contano quelle ricavabili. è il futuro il tempo per il quale vale la pena di vivere e quindi di produrre. Può darsi che qualche volta si parta dal passato (somma delle utilità già immesse), ma solo perché si dà per scontato che il loro impiego è, allo stato, proficuo. Anche in questo caso il punto di riferimento è sempre il futuro. Basta pensare alla valutazione degli stock di magazzino. Le merci fuori mercato, anche se di ottima qualità, non vengono certo valutate per somma dei costi accumulati, ma per le residue speranze di monetizzazione, se ve ne sono. D’altra parte, tutta la teoria della determinazione del reddito d’impresa, che è centrale della ragioneria, regge su due poli: il reddito d’esercizio e il reddito totale. Fatta astrazione da problemi di modificazione del modulo monetario nel tempo, il reddito dì esercizio altro non è che la segmentazione del reddito totale. Sarà discutibile la misura dei singoli segmenti, ma la loro somma dovrà dare il reddito totale, che, semplicemente, è la differenza fra il capitale iniziale e quello finale. Ma quello iniziale è l’ammontare monetario immesso e quello finale è la riduzione a moneta dei processi, tenendo conto di variazioni per immissioni di capitale, successivi a quello iniziale e per riduzioni da prelievi. E allora, in qualsiasi momento si voglia esperire un tentativo di valutazione dell’azienda è al valore differenziale di quel momento finale che ci si dovrà riferire. Ma se così è, il problema è essenzialmente, anzi unicamente, un fatto di attuazione di un valore ipotizzato. Non è certo problema da poco, ma non bisogna perdere di vista, con frammentarie elencazioni di criteri o con elucubrazioni formali, l’obiettivo vero e finale. Infatti, tutto si deve ridurre a un quesito del seguente tipo: quale potrebbe essere il valore totale del capitale finale in termini monetari al tempo futuro t, se il coordinamento dei fattori produttivi, cioè la conduzione dei processi, proseguisse con l’attuale organizzazione per la sola parte cedibile. Stabilito un tasso, il prezzo non può che essere il valore attuale di quel risultato finale. Solo così si paga al cedente il prezzo equivalente alle capacità oggettive cedute, con esclusione delle qualità soggettive del cedente (utili o perdite consequenziali a quelle qualità) e delle qualità soggettive del cessionario. Ecco perché nel prezzo non si comprendono i valori attuali degli utili (cioè il valore differenziale sul capitale finale) connessi alle personalità degli imprenditori cedenti e cessionari, ma nemmeno delle perdite. Un’azienda che perde per colpa del solo cedente ha un valore che deve prescindere da quella componente. Questo deve essere il solo criterio di valutazione dell’azienda e tutti gli altri o ne sono varianti e a esso sono riconducibili o sono contraddittori e incoerenti, quindi errati [6]. Non ha senso, infatti, trattare di particolari metodi di valutazione, per esempio per aziende in condizioni di crisi, per affermare che si deve incentrare il processo valutativo su somme di valori di realizzo. Tale criterio acquista un senso solo se lo si collega a una anticipata valutazione del capitale finale di liquidazione.

In alcune pubblicazioni, qui criticate, ricorre la affermazione che i metodi reddituali comportano scelte pregiudiziali di parametri, particolarmente il tasso di capitalizzazione, molto soggettive da applicare poi a incerte determinazioni di flussi previsti di reddito. La conclusione è l’inutilizzabilità pratica di tali metodi e quindi la necessità di far ricorso a metodi patrimoniali, tra l’altro particolarmente consigliabili in casi di situazioni aziendali compromesse. Chi ha pratica di stime sa quanto illusoria sia la maggior certezza di una stima a valori correnti rispetto a ipotesi di flussi futuri e a proposte di parametri di capitalizzazione. Un valore corrente non è un prezzo, ma una aspettativa di prezzo, date certe condizioni. Basta pensare alle stime dei periti di Tribunale per la determinazione dei valori base nelle vendite coattive per considerare come spesso, troppo, sono disattese dal mercato, cioè dal prezzo. Non bisogna dimenticare che il perito svolge il proprio lavoro prima del tentativo di cessione. Ma la tesi che il metodo patrimoniale, o un metodo misto che è peggiore, dia risultati meno incerti, oltre che infondata per i richiami pratici, contiene un errore di fondo dal punto di vista logico: e cioè la negazione di ogni processo di valutazione. Qualunque possa essere il punto di vista da cui si pone il valutatore di azienda, ove egli rinunci ad una pur ridotta attività previsionale non può compiere una valutazione. Infatti, considerare il prezzo di un chilo di pane comporta affrontare nell’immediato un problema di scambio di utilità fra operatori; il futuro è tutto compreso in un arco temporale di poche ore, che non ha significato nel processo estimativo, ma un’azienda, che racchiude un complesso di capacità produttive destinate a spiegarsi in una serie di atti produttivi componenti i processi economici, non può prescindere dall’aspetto temporale. L’ineliminabile complicazione della previsione diventa la componente essenziale della valutazione. Cioè si valuta in quanto si è in grado di prevedere. Si potrebbe dire: la valutazione è un atto previsionale. Allora, diventa insostenibile la tesi di una sostituzione del metodo reddituale con altri patrimoniali o pseudo patrimoniali, sotto il pretesto che diventa difficile prevedere un flusso di profitti e determinare un tasso di capitalizzazione. Una tale conclusione comporta una rinuncia alla valutazione. Ma, a ben guardare, il tentativo di superare le difficoltà della previsione, proponendo come punti di riferimento per il valore dell’azienda somme di valori di beni realizzabili sul mercato in ipotesi, per esempio, di liquidazione, fa rientrare dalla finestra quei problemi previsionali che si era cercato di cacciare dalla porta. Perché, in realtà, che cosa sono quei valori di liquidazione? Sono ancora dei valori attuali, anziché del flusso globale dell’insieme dei processi economici, del flusso singolo che ogni bene è in grado di fornire all’acquirente effettivo o all’acquirente standard, in riferimento al quale si compie la valutazione. Che a fare i calcoli sia l’acquirente del singolo bene anziché l’aspirante cedente dell’intera azienda non sposta il problema. L’acquirente, infatti, acquisterà il bene a un prezzo che è il valore attuale di un flusso di utilità ricavabili dall’impiego del bene, tenuto presente: il valore stimabile di quella utilità, il tempo di produzione e un tasso di attualizzazione. Forse non eseguirà il calcolo in senso matematico, ma un apprezzamento anche solo istintivo, che in sintesi tenga conto di tali elementi, dovrà pur farlo. Diversamente non vi sarebbe acquisto.

Se sommando le valutazioni ottenute con tale procedimento applicato ai singoli beni e inserendo i relativi valori nel bilancio dell’impresa, dedotto il capitale di credito e un certo valore relativo alla presenza di una coordinazione negativa (badwill), otteniamo un residuo negativo vuol dire che si è nel caso del deficit patrimoniale. Allora o si ipotizza una erosione al capitale di credito oppure l’imprenditore deve coprire quel deficit consegnando all’acquirente oltre all’azienda anche un premio, cioè il prezzo, perché accetta di rilevare una coordinazione perdente. Poiché il processo logico è sempre il medesimo, a egual risultato si deve pervenire se, usando dati omogenei, si attualizza la serie delle perdite future. Pertanto, si può constatare che i cosiddetti metodi patrimoniali altro non sono che metodi reddituali camuffati, perché il valore di mercato dei beni a uso ripetibile, nuovi o usati, cioè il prezzo, è un valore attuale. Se ne ha una riprova nei periodi di crisi economica a ciclo molto lungo, quando gli imprenditori, che non prevedono una ripresa dell’economia, abbandonano ogni investimento. Allora il primo mercato a entrare in crisi è quello dei beni di investimento. Il valore di quei beni prescinde, quindi, da: efficienza, produttività, grado di tecnologia attuali, ecc. È il loro impiego che non appare economicamente conveniente in termini oggettivi, cioè prescindendo dalla capacità coordinatrice del singolo imprenditore. Infatti il mercato apprezza in base ad uno standard. Viceversa quando le future aspettative consentono fiducia. Allora si possono inserire queste valutazioni, che il mercato fa sui singoli beni, all’interno dell’azienda, senza dimenticare che il tasso di attuazione del mercato è determinato in relazione comparativa con i tassi degli investimenti di capitali in altri comparti. Ora il tasso che determina il prezzo di mercato dei beni a fecondità ripetuta è lo stesso che può essere utilizzato per determinare il prezzo dell’azienda, che è un complesso coordinato di beni durevoli. Resta da valutare, in aggiunta, il valore di quella organizzazione coordinatrice (badwill o goodwill).

Supponiamo un’azienda in crisi con perdita annua di 10, in ipotesi di: costanza di volumi di affari, stabilità monetaria e di mercato, responsabilità illimitata verso i creditori che non consente composizioni transattive o remissorie. Il suo bilancio all’anno t0, potrebbe così presentarsi:

all’attivo: immobilizzazioni 100, capitale circolante 90, deficit patrimoniale 10;

al passivo: debiti 200.

L’impresa ha già consumato il proprio capitale. Se condizioni di rigidità impediscono la modifica immediata della struttura organizzativa, talché solo al sesto esercizio consecutivo si può prevedere il pareggio economico e si astrae dagli speciali interventi di un ipotetico compratore, ma si ipotizzano interventi «normali», è evidente che la valutazione in base alle future attese di risultati di esercizio debba orientarsi alla capitalizzazione delle perdite future a un tasso desumibile dal mercato. In ipotesi di obiettivo non migliore del pareggio il valore attuale sarà

 

Va = R . i + deficit patrimoniale

 

Va = 10 . 0,15 + 10

 

Ed è ovvio che il compratore chieda il ripianamento delle perdite future e del deficit già accumulato.

Supponendo un tasso di mercato del 15% si avrebbe un deficit patrimoniale totale del 43,52, cioè il venditore consegnando al compratore con l’azienda la somma di 43,52 mette quest’ultimo in condizione di trovarsi in ogni momento in pareggio patrimoniale e al sesto anno in condizioni di pareggio economico e patrimoniale. Il venditore potrebbe ritenere più conveniente la liquidazione dell’azienda, che, sulla carta, pare riservargli la sola perdita di 10. Parrebbe cioè che, liquidando l’azienda, non si sconterebbe il prezzo negativo della coordinazione aziendale che, allo stato, è una macchina produttrice di perdite, attualmente maggiori di 10, cioè più di 50 in cinque anni, data l’ipotesi che 50 sia la perdita emergente con interventi e correttivi «normali».

In realtà non dovrebbe essere possibile una tale convenienza. In condizioni normali di mercato il prezzo di realizzo dei beni aziendali vendibili e la monetizzazione di disutilità dovrebbe dare un risultato non dissimile da quello ottenibile con l’attuazione dei flussi di perdita. Questa non è la dimostrazione dell’assunto prima esposto, secondo cui i risultati di attualizzazione del flusso di perdite e di valutazione con criteri di valutazione debbano essere equivalenti. Una tale dimostrazione non è necessaria per comprendere un fenomeno economico che non è misurabile nelle sue alternative. Sono i limiti della scienza economica che impediscono esperimenti di laboratorio. Cioè fatta una scelta non è possibile l’alternativa. Ma, un modello formale crea solo l’illusione di una dimostrazione che in realtà non è data. Infatti se si ponesse:

 

Va = 10 . 0,15 + 10 = 10 + D + P

 

ove:

D = perdite di liquidazione dei beni date dalle differenze fra i valori di bilancio e quelli relativi sul mercato in base alle valutazioni che l’acquirente «standard» può dare ai valori attuali dei processi attuabili con i beni secondo una formula teorica del tipo x. i

P = spese di liquidazione

anche in caso di perfetta equivalenza non dimostreremmo nulla di più di quanto già non sia nell’intuitiva affermazione iniziale. Importante è poter affermare, in base alla logica, che il mercato compie all’incirca tali apprezzamenti.

La conclusione, intermedia, ne comporta una ulteriore: la determinazione del valore di un’azienda con la proposizione del metodo reddituale con carattere di unicità rientra nell’ambito della teoria del valore, come è intesa in economia politica.

È noto che la teoria generale del valore economico si regge su alcuni principi che accomunano teorie particolari (marginalistica, marxiana, sraffiana) divise più che altro da preconcetti ideologici. Innanzitutto è posto il principio di coerenza, cioè non si può apprezzare il pane e disprezzare il cereale, a meno di poter produrre il primo senza il secondo. Se prescindiamo da altri impieghi del cereale, possiamo proporre di valutano in funzione del valore del pane. Infatti, se cessasse il consumo di pane e mancassero altri impieghi, i valore del pane sarebbe pari a zero, così pure il valore del cereale. Se il fine dell’azienda è la produzione di un profitto, è improponibile un qualsiasi metodo di sua valutazione che non sia direttamente collegato a quest’ultimo.

Come si nota il principio di coerenza della teoria generale del valore è perfettamente applicabile alla valutazione dell’azienda: deve esistere un legame fra la causa costituita dal complesso dei fattori coordinati (input) e il profitto, risultante dalla coordinazione (output). La teoria generale del valore pone inoltre il principio di equivalenza, che è poi una diretta connessione del precedente: se il processo che trasforma gli inputs in outputs fosse istantaneo avremmo una identità, ma, essendo richiesto un certo tempo, l’equivalenza è, allora, affidata ad un processo di attualizzazione, realizzato, in genere, con lo strumento dell’interesse. Il processo che consente di collegare il valore del cereale a quello del pane pone una regola, attualizzazione per mezzo dell’interesse, che deve essere la stessa proponibile per il collegamento fra profitto e insieme dei fattori coordinabili per la sua produzione. [7] Ecco perché si è detto in apertura che la valutazione dell’azienda è un problema di economia politica, perché se si vuoi dare corretta soluzione, essa deve essere ricondotta nell’alveo della teoria generale del valore. Cosi scendendo dal generale al particolare, se la teoria del valore è centrale nella scienza economica, la teoria del valore dell’azienda è centrale della scienza economica applicata ai problemi dell’azienda. Se poi ad occuparsene debba essere la ragioneria o altro ramo dell’economia poco importa. Importante è che non vengano dimenticate le premesse fondamentali della teoria del valore, premesse che, poi, sono la base logica, che regola la scelta dell’acquirente imprenditore, il quale, senza conoscere formule o modelli più o meno meccanistici si regola affidandosi a valutazioni di quel che potrà presumibilmente essere l’avvenire. E questo è appunto il fondamento della teoria del valore.

 

Valutazione e inflazione

 

Ma il problema della valutazione dell’azienda riportato nell’ambito della teoria del valore consente più adeguata risposta a due domande attuali:

a) se aziende fortemente indebitate possano avere un valore superiore a quello di aziende meno indebitate; coeteris paribus;

b) se l’inflazione avvantaggi le imprese indebitate.

Inoltre consente un avvicinamento ad un problema, poco noto, ma tenuto ben presente da alcuni economisti e sociologi: il ruolo dell’impresa (o forse meglio dell’imprenditore) nel prossimo futuro, in un mondo che sta cambiando rapporti sociali e politici, velocemente anche se con scarsa evidenza.

La domanda sub a) è resa costantemente attuale dalla tesi che l’inflazione in economie prive di indicizzazione, avvantaggia i debitori, quindi le aziende fortemente indebitate. Il vantaggio dovrebbe tradursi in maggior valore patrimoniale, coeteris paribus. La tesi ha avuto particolare fortuna in occasione dell’incontro internazionale di analisti finanziari dell’ottobre 1978 a Bruxelles, riciclata come una novità da F. Modigliani, in realtà ripresa dall’economista statunitense Colin Clark, che già la prospettava ai primi del ‘900. [8]

La novità potrebbe consistere nel risparmio d’imposta per l’influenza riduttiva sul reddito fiscale di un tasso di interesse che in economie prive di indicizzazione assorbe in sé anche il tasso d’inflazione, che, invece, dovrebbe essere posta patrimoniale; ma è probabile che se il Modigliani avesse potuto (ma trattandosi di un economista si dovrebbe dire «dovuto») prevedere il numero di fallimenti di aziende indebitate negli USA e in Europa negli anni immediatamente successivi avrebbe messo minor calore nel divulgare la sua scoperta. P questo un ulteriore esempio di come non si debba confondere quel complesso di microcosmo economico che è l’azienda, con l’analisi delle posizioni e delle scelte di portafoglio dell’investitore. La tesi Modigliani nelle sue variegate rappresentazioni è ultimamente rivisitata dal suo stesso autore nel saggio: «Debt, dividend, policy, taxes, inflation and market value» (1982) in «The journal of Finance», ma l’equivoco di fondo rimane: l’autore parla in generale di vantaggi del debitore fingendo di non sapere che il lettore intende azienda; di contro certi lettori, o perché desiderosi di credere nei vantaggi esposti o per condannare gli effetti, fingono di stare al gioco. Ma l’azienda non è un fenomeno semplicistico di partite finanziarie passive; è invece un fenomeno complesso originato dall’intrecciarsi coordinato di processi produttivi anche complementari, che dà luogo a una permanente struttura di fattori disponibili in vari stadi di impiego e di fonti di finanziamento. L’azienda è cioè un fenomeno di passivi e di attivi coordinati e l’inflazione non è isolabile solo sui primi, ma colpisce l’intera coordinazione con il risultato che anche il complesso di processi produttivi in atto non può non risentirne. [9] Basta proporre una contabilità a costi di rimpiazzo per rilevare i guasti che l’inflazione produce sul capitale di funzionamento e soprattutto per concludere che l’analisi del fenomeno aziendale mal si presta a strumenti di analisi tipo varianza-covarianza e cosi via. Si può considerare che l’aziendalista debba utilizzare per le proprie analisi, valutazione compresa, il tradizionale armamentario.

Si è detto sopra che la valutazione di azienda è un problema da far risolvere all’economista più che al tecnico ed è vero nel senso che la valutazione di azienda va riportata nel più vasto campo della teoria economica del valore. D’altra parte è imprescindibile esigenza professionale che un cultore della ragioneria debba essere anche un buon economista, non è altrettanto sentita l’esigenza che quest’ultimo sia anche un cultore di ragioneria, se si mantiene a debita distanza dall’azienda.

La domanda sub b) potrebbe essere assorbita dalla precedente per l’ovvio motivo che il vantaggio o lo svantaggio dell’inflazione per l’azienda è già compreso nella maggior o minor valutazione. Ma la separata trattazione consente particolari considerazioni. Innanzitutto se si rigetta, come pare che si debba in base all’esperienza degli ultimi anni, la illusoria tesi che l’inflazione sia un fenomeno governabile nel medio lungo periodo, nel senso che sia possibile predeterminarne il tasso come obiettivo intermedio di politica economica, alfine di raggiungere obiettivi finali del tipo: tasso di occupazione, si deve concludere che prima o poi l’impresa si troverà a operare in un mercato con prezzi alterati e, per i riflessi sui cambi, con un mercato di approvvigionamento delle materie prime completamente scollato da quelli di sbocco della produzione, quasi sempre con domanda in caduta per una inevitabile sopravvenienza di ristagno e disoccupazione. I vantaggi dell’inflazione nel breve periodo, apparenti sulla gestione del passivo, verranno bruciati nel breve lungo periodo, non appena i prezzi e soprattutto quel particolare prezzo che è il tasso di interesse avranno potuto adeguarsi e spesso anche superare il livello attuale per effetto delle attese di maggior inflazione futura. Solo aziende particolarmente flessibili che abbiano completato con prevalenza di mezzi propri o con finanziamenti a interesse fermo, cicli di investimento in settori traenti prima dell’ondata di «caldo inflazionistico» potranno constatare di aver ricevuto vantaggi dall’inflazione e sempreché i loro mercati di sbocco non soffrano del crollo della domanda. Ritengo sia razionale affermare che l’aver potuto realizzare investimenti con capitale di credito non indicizzato nei periodi di grossa inflazione giovi a ben poco se poi quei capitali fissi potranno essere utilizzati in bassa percentuale del potenziale produttivo. Ma casi particolari in cui ciò può accadere non consentono suffragi al partito imprenditoriale dell’inflazione.

 

Valutazioni e futuro dell’impresa.

 

Come innanzi annunciato, l’analisi delle due domande, seppur connesse al fenomeno inflazionistico, apre una prospettiva sul ruolo dell’impresa in senso assoluto, cioè a prescindere dal fenomeno inflazionistico, prospettiva che comporta problemi di valutazione. L’inflazione è un fenomeno che l’economia politica conosce da lungo tempo. Né trattò Wicksell quasi cento anni fa, ma l’inflazione degli anni 70-80 è un’altra cosa. Credo che tutti gli economisti, monetaristi e no in fatto di terapie, siano d’accordo nell’individuare nel bilancio pubblico la causa principale del fenomeno. Invertire la tendenza, a parte la volontà politica di farlo, richiederà resistenze istituzionali, sociali ed economiche, che comporteranno tempi lunghi per una guarigione, se vi sarà, e con numerose ricadute. Ma, soprattutto, comporterà un permanere della dimensione del debito pubblico, che, al meglio delle terapie, conserverà precedenti valori anche in presenza di compressione delle spese correnti per la necessità di alimentare il moltiplicatore del debito costituito dagli interessi. Di contro è prevedibile una stasi del prodotto nazionale, rilanciabile solo con nuovi investimenti, razionalmente deliberati.

È ovvio concludere che il mercato resta scardinato, anche perché pressioni sociali e politiche, impedendo fallimenti per illusorie difese di livelli occupazionali scaricheranno sul bilancio statale e sulle altre imprese gli effetti permanenti della mancata cancellazione di quelle non vitali e quindi con alterazione nei processi allocativi di risorse già scarse. È un fatto certo che le risorse disponibili per l’impresa sono destinate a ridursi in un’epoca che comporta alle aziende maggiori investimenti per quegli aggiornamenti di capitale fisso che la high technology comporta, come esigenza di sopravvivenza dell’impresa nei mercati internazionali. [10] In questo contesto, già in parte presente, ma caratteristica dominante dell’economia degli anni ‘90, l’impresa dovrà vivere o, forse meglio, sopravvivere. E allora, come far entrare queste strutturali componenti istituzionali nel processo di valutazione dell’azienda? Se l’imprenditore aspirante acquirente non è un operatore che vive alla giornata, ma guarda al futuro, che è l’unica dimensione temporale per lui interessante, solo la attualizzazione del profitto, cioè delle probabilità di sopravvivenza dell’azienda, può essere il criterio per la valutazione. Non hanno e non avranno senso i metodi patrimoniali o finanziari: è la teoria del valore, quale è conosciuta dall’economista, l’unico strumento di misurazione. È da Marshall che la scienza economica attribuisce all’imprenditore la dignità di fattore della produzione, il quarto in aggiunta ai tradizionali. [11] Tale riconoscimento rappresenta, a mio avviso, una svolta importante nella storia dell’analisi economica, anche se mi pare di leggerne la presenza implicitamente in Smith [12]. Infatti sganciare dal capitale la forza coordinatrice dell’imprenditore è importante come saper distinguere l’armatore dal proprietario della nave. La distinzione è oggi un’esigenza, anzi, l’esistenza di capital venture è l’arma vincente in un mercato di capitali reso vischioso dalla opprimente presenza delle cambiali statali. Ma oggi mancano nelle istituzioni giuridiche strumenti per definire le posizioni di imprenditore e fornitori di capitali in un mondo che cambia. È evidente che un processo di valutazione dell’azienda si può ipotizzare solo in quanto esista la libera proprietà dei fattori della produzione, perché solo la proprietà postula la libertà di cessione. [13] Infatti, in un mondo di aziende nazionalizzate è un mero esercizio intellettuale. Ma la libera disponibilità dei fattori implica una definizione giuridica del rapporto imprenditore finanziatore diversa dall’attuale. Finché si continuerà a considerare l’azionista di grandi anonime come un comproprietario di una quota ideale di società l’afflusso di capitali alle imprese sarà bloccato dalla vincente concorrenza dei titoli statali. La Borsa ha perso i suoi significati istituzionali e si è ridotta a luogo di mera speculazione per finanziare le campagne elettorali dei partiti o per rastrellare certificati per scalate di finanzieri d’assalto. Occorrono leggi nuove e nuove istituzioni finanziarie per alimentare il crescente bisogno di capitali dell’impresa. E allora: che valutazione diamo ad un’azienda, oggi, se dobbiamo tenere in considerazione le componenti sopra ricordate? Ma non dimentichiamo che l’acquirente imprenditore le considera! Ecco perché gli aspiranti diventano rari. Ed ecco perché gli stimatori corrono il rischio di rimanere senza materia su cui operare. Oggi l’azienda è come una moglie bisbetica in un ordinamento senza divorzio: bisogna tenersela! A meno che non si pensi a una nuova definizione del ruolo dell’imprenditore. Ci si può provare. Ipotizziamo, per esempio, un mercato di produttori in cui un «ente» distribuisce i capitali necessari a una lista di aspiranti imprenditori, selezionata secondo certi criteri di analisi delle capacità, onde garantire un buon risultato delle coordinazioni produttive. Superato così il problema del rifornimento dei capitali, si ipotizzi, inoltre, che il profitto vada all’«ente», mentre all’imprenditore che ha attuato la coordinazione spetti un compenso, pari allo stipendio di generale di corpo d’armata o pari a quello di manovale specializzato più la commenda o la Legion d’onore, oppure un compenso zero più una promessa di sepoltura nel cimitero degli eroi. Rispetto al superato caso in cui l’imprenditore prendeva tutto, quelli qui ipotizzati sono opposti casi limite, dandosi i quali il problema della valutazione di azienda non esiste. Ma si ha motivo di ritenere che la realtà futura sarà intermedia, lasciando alla valutazione di azienda una sua funzione operativa. È sulla scommessa di questa nuova dimensione di rapporti, perché è certo che una nuova definizione di rapporti vi sarà, che regge il problema della valutazione.

 

Conclusioni

 

Queste osservazioni di lettore portano alla conclusione che la valutazione di un’azienda è una complessa analisi incentrata su proiezioni, che esclude proposte di metodi non reddituali o inutili formalizzazioni, valide, forse, per scelte di portafoglio di risparmiatori. Implica invece l’applicazione della teoria del valore secondo i canoni della scienza economica, soprattutto perché in un mercato e in un contesto socio economico in necessaria evoluzione, ogni analisi valutativa deve tenere nella determinante considerazione le componenti previsionali, anche perchè in tale ottica si pone istintivamente l’aspirante acquirente imprenditore. Pare fondato ritenere che la valutazione per metodi patrimoniali sia una comodità dello stimatore e costituisca anche il retaggio di età più statiche, in cui i sistemi socio-economici si spiegavano in più lento fluire. Ma se si aspira ad un progresso nella scienza delle valutazioni è sulle componenti del metodo reddituale che bisogna lavorare per affinare conoscenze di parametri e di dati di riferimento. In questo campo vi è molto da fare, perché l’economia politica, soprattutto con le teorie dell’attesa, applicata a vari temi, ha compiuto notevoli passi che la scienza delle valutazioni aziendali non ha ancora recepito per adattarle alle proprie esigenze. Pare fondato il dubbio che lo studioso delle valutazioni abbia poco sfruttato la dottrina economico politica che è suo bagaglio culturale, perché deviato dal tecnicismo contabile e perché desideroso di dare alle sue stime riferimenti di apparente maggior credibilità. Infatti, pare più giustificabile un valore se è riferito a una esperienza corrente invece della attualizzazione di realtà future fondatamente prevedibili. È cioè più facile dire che un’azienda vale x, perché è il risultato della somma di valori correnti di mercato, invece che affermare il valore y in quanto attuale di eventi futuri. Ma per guardare al futuro nel tentativo di valutazioni razionali e di soddisfacimento delle attese dell’imprenditore è necessaria una padronanza dei problemi di politiche e relazioni industriali e di evoluzioni socio-economiche.

Si è accennato all’ipotesi di un diverso ruolo dell’imprenditore negli anni prossimi come conseguenza della trasformazione della vita socio politica e quindi come esigenza istituzionale. Tuttavia è da escludere un sovvertimento totale del ruolo dell’imprenditore, ma si impongono nuove soluzioni di infrastrutture finanziarie di mercato per creare nuovi spazi all’impresa.  Il problema è, allora, rimbalzato alle sue componenti preliminari: il ruolo dell’impresa nel contesto socio economico e politico futuro. Senza queste indagini, la valutazione di azienda rischia di essere un problema di analisi storica anziché di proiezione, che è l’unico mondo dell’impresa destinata a durare.

 

31 dicembre 1983

 

Pietro Bonazza


[1] T. THUN, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, 1978, pag. 19.

[2] A. MAR5HALL, vedi supra nota (1). Esempi di espressioni formali ridondanti su problemi aziendali si trovano in G. Palomba, Un’interpretazione economico-matematica del bilancio d’impresa» in «Giornale degli economisti e annali di economia», 1965, pagg. 1058 e segg. tratto da «Fisica Economica», Napoli 1966, il cui titolo è emblematico e da ultimo F. Modigliani, The Journal of Finance», 1982 pag. 285. Certe inutili complicazioni formali ricordano le macchine di Rube Goldberg, che però è un umorista.

[3] G. GUICCIARDINI, Ricordi, Milano, 1951, pag. 58.

[4] Vedi sopra nota (2)

[5] Invero A. MARSHALL in op. cit., pag. 238, aveva osservato che «… in un certo senso, vi sono soltanto due fattori della produzione: la natura e l’uomo», ma il titolo del libro IV dei «Principi di economia» è «I fattori della produzione: terra, lavoro, capitale e organizzazione», ove per organizzazione è da intendersi l’opera dell’imprenditore.

[6] Il 3° § della «Recomandation sur les procédure à suivre par les experts comptables en matière d’évaluation d’entreprises», Union Europèenne des Experts Comptables (UEC), dicembre 1980 è un preciso riferimento metodologico già nel titolo: «La méthode théorique correcte d’évaluation d’entreprises (méthode du calcul de rentabilité des investissements)» e precisamente «L‘évaluation d‘entreprises fait partie de la théorie économique du choix des investissements: aussi doit – elle, en principe, être basée sur cette théorie ainsi que sur les méthodes de calcul de rentabilité des investissements. La valeur attribuée à une entreprise est subjective. Selon les objectifs de l’investisseur, elle peut varier entre la valeur obiectivée et une valear qui tient compte des objectifs supplémentaires ou noaveaux: formulées par I ‘acquéreur potentiel. La valeur theorique correcte de l‘entreprise est la valeur actuelle de toutes recettes nettes futures revenant à l’investisseur. Les recettes futures étant incertaines, plusieurs séries de chiffres sont envisageables. En règle générale, on assimile lez flux financiers entre l’investisseur et son investissement (considérés sur la durée totale de l’investissement) à ceux existant entre l‘entreprise et son environnement (méthode dit du cash flow). En principe, la valeur théoriqae correcte d’entreprise puat donc être determinée que sur la base des excédents financiers distribuables qu’elle peut sécreter darablment (c‘est-à-dire la capacité de distribution des bénéfices y compris la valeur de liquidation). Cette valear correspond donc à la valeur actuelle de tous lex excédents financiers futurs de l’entreprise, susceptibles d’être distribués tout en maintenant la productivité financière de cette dernière. Il faut y ajouter la valeur actualisée de la valeur de liquidation de l’entreprise».

[7] Per un riferimento analitico vedi S. RICOSSA, Teoria unificata del valore economico, Torino, 1981.

[8] La teoria è espressa nel modello Modigliani-Miller, di cui si trova ampia analisi in Convenienza dell’indebitamento, sistemi fiscali e inflazione nel modello Modigliani- Miller in «Bancaria», 1979, pag. 867. Il Modigliani ha raccolto la sintesi delle successive elaborazioni nel saggio citato in nota (2).

[9] Recenti analisi sugli effetti dell’inflazione sulle imprese sono esposte da C. Scognamiglio, in Gli effetti dell‘inflazione sul valore delle aziende, in «Banche e Banchieri», 1982, pag. 985 e La situazione finanziaria dell’industria.’ apparenza e realtà, stessa rivista, 1983 pag. 111.

[10] Business Week NewYork, 28 marzo 1983 articolo «per lo sviluppo l‘America punta sulla high tech» tradotto in «Rassegna della stampa estera» del Banco di Roma,1983 pag. 356.

[11] Vedi supra nota (5)

[12] La scissione fra capitale organizzazione si intuisce in A. SMITH «Ricchezza delle nazioni», Milano 1973, pag.733. Parlando delle grandi società per azioni, che avversava, dice degli azionisti: «...raramente pretendono di capire qualcosa degli affari della società e, quando non capita che tra essi prevalga lo spirito di fazione, non se ne curano minimamente…» e dei direttori di tali società «… siccome gli amministratori di tali compagnie sono gli amministratori del denaro altrui piuttosto che del loro, non ci si può aspettare che lo sorveglino con la stessa vigilanza che i soci di una società privata spesso dedicano all’amministrazione del loro denaro...».

[13] P. BONAZZA, Remunerazione dei fattori e rilevazioni¸ in Juseconomics“, Brescia, 1981