Brevità

 

Brevità è parola di significati variabili, ma la sua miglior espressione è “dire in poche parole ciò che si può dire con molte” con vantaggio sia di chi parla sia di chi ascolta. Può diventare anche un’arte e gli esempi più classici sono: l’aforisma fulminante e il motto (o slogan come dicono gli anglofoni).

Non bisogna dimenticare che la parola è simbolo e il simbolo è parola. La comunicazione via informatica ne ha riscoperto un’applicazione che sembra riportarci ai geroglifici di antichissima memoria, come con l’uso delle faccine per esprimere sentimenti complessi, ma brutalizzandoli: le chiamano chat, ma un uomo di garbo non direbbe mai alla sua amata “ti amo” con una faccina (emoticon); l’uomo informatico sì, dimenticando che esistono le rose rosse!

Va bene tutto pur di intenderci, ma c’è modo e modo!

Mai dimenticare la desolata constatazione del grande Orazio: brevis esse laboro, obscurus fio [Ars poetica].

Dante, nella sola Divina Commedia, scrisse quattordicimilatrecentotrentatre endecasillabi per dire di Beatrice quanto l’avesse amata e non meno Petrarca con i suoi trecentosessantasei sonetti dedicati a Laura, entrambi senza menare il can per l’aia. Allora con chi stare? Io sto con Orazio, Dante e Petrarca e, se proprio devo scegliere il silenzio, lo voglio assordante.

Non dimentico l’avvertimento di Giosuè Carducci: «Chi riesce a dire con venti parole ciò che può essere detto in dieci, è capace pure di tutte le altre cattiverie».  Ma lui, per primo, osservò il suo memento?

Gli amanti dell’estrema sintesi potrebbero anche invocare la superiore autorevolezza della parola di Gesù Cristo, che, come ricorda Matteo in 5-33,37, afferma perentoriamente: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno», perché l’avverbio avversativo “invece” è preceduto dal divieto di giurare e non è un invito alla brevità.