1) Collocazione in bilancio

L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato la Risoluzione 18 gennaio 2008, n. 13/E, in risposta a un interpello di una società che gestisce, assieme ad altre attività non finanziarie, titoli qualificati come capitale circolante. L’interpellante ha chiesto di conoscere quali conseguenze possono derivarne ai fini del calcolo di operatività per la qualificazione in società di comodo e l’ulteriore conseguenza, sottaciuta dall’istante, sull’applicabilità degli studi di settore. In concreto l’istante denunzia di aver esposto nei bilanci degli esercizi 2004 e 2005 i costi e i ricavi di compravendite di titoli classificati nel capitale circolante separatamente in conto economico e precisamente nelle voci B6) e A5), secondo lo schema dell’art. 2425 cod. civ. Inopinatamente e forse per un precedente errore di interpretazione, per il bilancio 2006 ha cambiato appostazione, utilizzando, invece, la voce C16 per soli saldi. Constata, successivamente, che così cambia strutturalmente e a proprio danno il calcolo del test di operatività, con conseguenze autopenalizzanti. L’istante, invece di una correzione, propone un’interpretazione diversa sulla collocazione in conto economico, ma l’Amministrazione finanziaria afferma, in risposta, che: «…appare corretto procedere alla verifica del test di operatività indicando, per quanto concerne i proventi derivanti dalla negoziazione dei titoli, solo l’importo riferibile al provento finanziario piuttosto che l’intero corrispettivo di vendita». In pratica, la risposta dell’Amministrazione fa rinvio ai principi contabili richiamati dalla società istante e, senza entrare nel merito dei medesimi, ha buon gioco a vincolare la società alle scelte civilistiche dichiarate.

Sennonché, a mio avviso, sbagliano sia l’istante sia l’Amministrazione per almeno i seguenti motivi:

– né l’art. 2425 cod. civ. né il Principio OIC n. 20 né i principi IAS affermano che i titoli devono essere trattati in un conto assimilabile a un limitato conto esercizio. Anzi, è importante rilevare che al paragrafo 3.1 questo principio afferma testualmente: «Quanto alla iscrizione degli utili o delle perdite che derivano dalla negoziazione di partecipazioni e titoli non immobilizzati, lo schema di conto economico non si occupa esplicitamente della loro classificazione». Conseguentemente, è irrilevante un funzionamento “a costi e costi” o “a costi, ricavi e rimanenze” come suggerisce certa pubblicistica, poiché, se i titoli fanno parte del capitale circolante la loro movimentazione deve seguire le regole delle altre componenti del circolante stesso e, pertanto, rifacendoci alla tradizionale scuola di ragioneria italiana e a prescindere dalla terminologia dei principi contabili e del legislatore degli artt. 2424 e 2425, si deve più correttamente e semplicemente far funzionare in contabilità un “titoli c/acquisti” e uno speculare “titoli c/vendite”, il cui giro a fine esercizio non può che essere in sezioni distinte del conto economico e, per la forma scalare imposta dall’art. 2425 cod. civ., in voci autonome;

è noto che i principi contabili non possono derogare alle norme del codice civile e particolarmente degli artt. 2423, 2423-bis, 2423-ter, 2424, 2424-bis, 2425, 2425-bis e 2426 cod. civ., poiché hanno funzione interpretativa e applicativa, quindi di sussidiarietà [1]. Le voci di bilancio che interessano questa problematica sono “CIII – Attività finanziarie dell’art. 2424 cod. civ. per lo “Stato patrimoniale” e A-5) Valore della produzione e C-16) Altri proventi finanziari dell’art. 2425 cod. civ. per il “Conto economico”. Ora, è ovvio che i proventi non sono i ricavi dei fattori che compongono il capitale circolante, perché, diversamente, dovrebbero essere considerati “proventi” anche i ricavi di vendita delle merci, tesi che nessuno potrebbe sostenere per manifesta illogicità. Né deriva che se i titoli sono “bene merce”, i relativi ricavi trovano naturale accoglimento tra gli “altri ricavi e proventi” della voce A-5) e non per saldo di compensazione di partite in C-16), diversamente dai movimenti dei titoli costituenti immobilizzazioni finanziarie, ma, se anche si volesse attribuire pari significato ai due termini “ricavi” e “proventi” [2], seppur lo stesso art. 2425 cod. civ. li separi, resta determinante la constatazione che sono entrambi nella voce A-5);

– pertanto, non è condivisibile la Circolare Assonime 22 aprile 1997, n. 46, né le Circolari dell’Amministrazione finanziaria 26 febbraio 1997, n. 48/E [3], 4 giugno 1998, n. 141/E , in materia di Irap [4] e 4 maggio 2007, n. 25/E , quest’ultima peraltro non puntuale sullo specifico problema  [5].

 

2) Conseguenze fiscali

La più appropriata collocazione in bilancio delle operazioni sui titoli non costituenti immobilizzazioni non è solo questione formale o estetica, perché i suoi effetti fiscali sono resi evidenti proprio dalla Risoluzione 18 gennaio 2008, n. 13/E citata nell’incipit e tanto più dovrebbe averne se l’intenzione di eliminare autonomie tra bilancio fiscale e bilancio civilistico, enfatizzata dalla Legge 24 dicembre 2007, n. 244, nota come Finanziaria 2008, dovesse realizzarsi. Infatti, il collegamento “diretto” tra conto economico fiscale e conto economico civilistico resta più una manifestazione ideologica che una realtà, viste le deroghe già avanzate, tra l’altro, nell’art. 1, commi 34 e 50, della legge stessa. Allo stato attuale della normativa, gli effetti più immediati ricadono sulla qualificazione della “società di comodo”. È noto che l’intento del legislatore è di paragonare il valore di ricavi teorici, fondati su presunzione iuris tantum, con quelli effettivi del conto economico civilistico. Poiché il metodo per il calcolo dei ricavi teorici si fonda su componenti patrimoniali medie non certo omogenee, né sul piano temporale né su quello economico-sostanziale, con le cause dei ricavi effettivi, conseguentemente, una impostazione del conto economico che includa i ricavi di vendita dei titoli nella voce A-5) piuttosto che un saldo compensato in C-16) può lasciare la società nella categoria “non di comodo”. Ciò ha particolare importanza per le società “marginali”, il cui transito da una classe all’altra può dipendere proprio dalla appostazione nel bilancio civilistico.

Ma, gli effetti non sono meramente classificatori, perché l’ulteriore conseguenza è l’applicazione o no degli “studi di settore”, che, a parte lo ripetute critiche sulla loro fondatezza, portano alla determinazione di un reddito imponibile di natura “catastale” in contrasto non solo con le scritture contabili, che dovrebbero valere contro l’Amministrazione finanziaria fino a prova delle irregolarità di cui all’art. 39 D.P.R. 600/1973, ma anche con la realtà economica.

Peraltro, sul piano logico non si comprende nemmeno l’accanimento contro le società che non sono particolarmente dinamiche, perché una società offre sempre comunque materia imponibile interessante per il Fisco e perché il costo per produrre un maggior gettito è quasi sempre più elevato del maggior risultato conseguibile, talché la spinta a forzare i valori della singola società per rientrare nella dimensione fiscale ordinaria, può portare, alla fine, a una riduzione del gettito. Se il motivo sotteso è una pretesa lotta giacobina all’elusione, allora bisogna pur considerare che questa va combattuta con armi diverse da quelle facili e spesso sterili seguite abitualmente dall’Amministrazione finanziaria.

Pietro Bonazza


[1] Si veda il Principio OIC n. 11, “Bilancio di esercizio. Finalità e postulati”.

[2] Si veda il Principio OIC n. 12.

[3] In Boll. Trib. 1997, n. 5, pag. 398.

[4] In Boll. Trib. 1998, n. 12.

[5] Conformi alla tesi qui sostenuta: R. Caramel, Bilancio delle imprese, Milano, 1992, pag. 239 e fascicolo straordinario “Italia Oggi” 3 marzo 2005, a cura di G. Rigetti, pag. 199. Inoltre, particolarmente chiara la lezione del prof. Cantucci dell’Università di Pavia, pubblicata nel sito, http://economia.unipv.it. Dello stesso avviso G. e A. Vasapolli, Dal bilancio di esercizio al reddito d’impresa, Milano, 2006, pag. 1062.