La pressione fiscale non è quella delle statistiche ufficiali, in genere benevole nei confronti dei pubblici poteri e di chi sta al governo, ma la reale, comprendente la ufficiale e la parte occulta, che, però, il contribuente avverte, anche se non riesce a determinarla, perché non è immediatamente quantificabile, però imputabile all’amministrazione pubblica per le sue disfunzioni, le angherie burocratiche, le dispersioni di tempo, le inefficienze, che traslano dal pubblico al privato le diseconomie di un welfare, che lascia ai poveri le briciole e si trasforma, per maliziosa confusione, in privilegi per le caste.

La somma di questi benefici pubblici fatti pagare sui privati fa salire la pressione fiscale a limiti insostenibili e intollerabili, impedisce la crescita del Pil, che è l’unica cura a tanti mali domestici. A questo fenomeno si associano le storture regionali, che qualche storico, non saprei se a torto o a ragione, imputa come causa iniziale alla politica di Federico II nel XIII secolo.

Io preferisco accennare alla metafora del treno, che ha una locomotiva con il traino di vagoni, alcuni dei quali con i freni bloccati.

Ora, non sarebbe giusto criticare l’italico Nord-Est perché corre meno di un tempo recente, però conoscerne i motivi è una necessità, in primis per i giulio-veneti, anche per meglio scegliere eventuali terapie.

Provvede, sul fenomeno, uno studio di due valenti economisti della Banca d’Italia: Antonio Accetturo e Carlo Menon, che il lettore può trovare pubblicato recentemente sul sito www.bancaditalia.it, titolo: “Il Nord Est nel confronto europeo”.

Si tratta di una pregevole ricerca condotta con raffronto ad altre aree europee ritenute con caratteristiche omogenee a quelle del Nord-Est, ma che hanno rivelato andamenti migliori negli ultimi anni. I riferimenti sono al: grado di scolarizzazione, grado di managerializzazione, produttività e livello di tassazione, palese e occulta. Dal paragone con le altre aree del paniere, risulta un quadro di regresso della competitività del Nord-Est, in parte causato da condizioni socio-economiche locali, da mentalità radicate e poco aperte all’evoluzione dell’organizzazione, che sta diventando ormai una condizione di aggressività vincente nella gestione, ma anche in notevole parte dalla ricaduta a livello territoriale dell’inefficienza del sistema Italia e soprattutto della struttura fiscale della tassazione statale.

Il saggio è pregevole non solo nelle sue conclusioni pratiche, ma anche in quello metodologico, che è estensibile ad analisi su altre aree e forse anche ad altri campi di indagine. Ma c’è un messaggio sotteso: ricordiamoci che, se non vogliamo essere un’economia chiusa, quindi perdente, i paragoni si fanno tra aree economiche europee, in cui le celebrazioni del 150° dell’italica unità si disperdono nella realtà di chi vince e chi perde. L’economia non è tutto, ma, alla fine, finisce per essere una koiné.