Nella nostra epoca, diversamente dal passato, diventa sempre più difficile, quindi più raro, il fenomeno delle invenzioni scientifiche realizzate da singoli studiosi (Pasteur) o per caso (la penicillina di Fleming). Oggi le invenzioni sono prevalentemente opera di équipe, di “gruppi” di ricercatori, che studiano nell’ambito di organizzazioni complesse e costose, cioè che esigono dotazioni di capitali, spesso pubblici. È questa realtà che spiega la posizione dell’epistemologo Feyerabend (“La scienza in una società libera“), secondo cui, se sono impiegati risorse di una collettività, è questa che ha il diritto di pronunciarsi sulla destinazione effettiva dei propri fondi.
Una conseguenza immediata della constatazione che la ricerca impegna molte risorse, è che il fine, l’oggetto della ricerca, deve essere sfruttabile economicamente, almeno nella maggior parte dei casi. La tecnologia esige questo utilitarismo e questo pragmatismo e porta a concludere che economia e scienza e tecnologia sono legate da un rapporto biunivoco.
Il fenomeno implica l’esistenza di due situazioni: una ricerca che genera solo miglioramenti dell’esistente (innovazioni di processo e di prodotto striscianti) e rivoluzioni dell’esistente. I cicli economici si collegano a questi fenomeni, nel senso che l’innovazione strisciante può frenare la caduta del ciclo o addirittura produrre incrementi, seppur contenuti, mentre l’innovazione rivoluzionaria spinge sempre verso l’alto il ciclo economico (da non confondere con il ciclo del prodotto). Non si spiega diversamente il fenomeno della new economy, di Internet ecc. All’inizio dell’innovazione tutto viene sollecitato verso l’alto, ma, esaurita la spinta e resa diffusa l’invenzione, tutto torna normale, ove per normale significa anche togliere la parte di “bolla” che si era creata sull’invenzione, anche se si tratta di un “normale” a livello più elevato rispetto al preesistente.
Da qui a considerare che la borsa si collega alla scienza, o meglio ai suoi risultati pratici, il cammino è breve. Si potrebbe dire che la borsa è sensibile alla scienza. Si pensi alla flessione dei corsi di borsa del colosso farmaceutico Astra-Zeneca nell’estate 2002, quando si seppe che un certo farmaco destinato alla cura dei tumori polmonari non aveva dato i risultati prefissati. A prima vista il fatto sembra rientrare in uno dei tanti fenomeni di volatilità delle borse, che ormai si lasciano influenzare da un refolo di vento, perché un non-risultato dovrebbe semmai giustificare un mancato incremento dei corsi, lasciando sul terreno l’esistente e non una caduta. Però il fenomeno si spiega, almeno in parte e in un’epoca di rapporti price/earning già molto alti, con la considerazione, non trascurabile dalla borsa, del mancato flusso di redditi futuri collegabili all’investimento in quella particolare ricerca, rimasta, almeno per il momento, improduttiva. Quello citato non è un caso isolato, perché gli esempi, nella storia economica attuale e passata, non si contano.
Si può così stabilire una specie di filiera: invenzione – ciclo economico – andamento borsistico, ove le bolle dei corsi azionari sono sovrastrutture, ma senza stravolgere il trend, che è calante o crescente in relazione ai progressi della tecnologia. In questo ambito la singola invenzione gioca un ruolo di trascinamento di grande importanza, perché ormai una invenzione apparentemente settorizzata può spalmarsi su molti settori più o meno collaterali, se non in tutti, come accade con Internet.
L’anno 2002 è stato caratterizzato da crolli di corsi, che hanno trovato varie spiegazioni e per la cui correzione i soliti consigliori hanno raccomandato le solite panacee dei tassi di interesse, efficaci come una pappina di lino per curare una broncopolmonite.
La realtà, certo spiacevole, è la mancanza negli ultimi tempi di una invenzione capace di fare da traino in un’economia che è, almeno temporaneamente, statica. Che poi la borsa non sia più capace di considerare il normale, che potrebbe ben essere rappresentato da una pura e semplice riduzione dell’oscillazione del pendolo intorno al punto di equilibrio, è il fenomeno dei nostri tempi, chiamato volatilità, che sta a indicare un “su e giù” privo di ogni logica economica, perché la “logica” della borsa non è più economica, ma è solo uno strumento per una esasperata speculazione al rialzo e al ribasso. Così la borsa si lascia governare dalla logica della bisca, in cui dominano gli effetti di adrenalina, autoeccitazione, autolesionismo, tipici dell’uso di droga. Chi andrebbe in una sala da gioco sapendo che tornerà a casa con i propri soldi? No! Meglio andare a rischiare di rimanere in mutande, perché ci si sente più vivi anche se più freddolosi. Che qualcuno spieghi il fenomeno come risultato di una “finanza creativa”, cambia poco, perché in economia eufemismi e metafore non invertono la realtà.
In questo bailamme da manicomio, al piccolo risparmiatore, preoccupato solo di difendere il valore di sudati risparmi, resta la speranza di un prossimo nuovo “ritrovato”, che rilanci tutti i mercati, lasciando senza voce i rumors e la ridda di dati giornalieri, trimestrali e di brevissimo periodo presi come giustificazione per lanciare o svilire un titolo, in contrasto con i veri valori patrimoniali ed economici.
I rapporti di squilibrio tra borsa ed economia sono proprio nella esasperazione che porta la speculazione. Se questo è vero, è altrettanto scontato che dalla crisi delle borse si potrà uscire solo con una nuova invenzione rivoluzionaria. Speriamo che nel 2003, in un laboratorio di un qualche angolo di un mondo sempre più piccolo e globalizzato si scopra la “novità”, anche se a causarla fosse la serandipity.
Pubblicato su “ItaliaOggi”, 7 gennaio 2003, pag. 1-22